A quel tempo, anche Ottavio, studente di II Liceo assolveva il Servizio militare di Leva. Era l’estate del 1961. Aveva vent’anni e mezzo e si trovava a Spoleto, a seguire il Corso di Allievo Sottufficiale di Complemento, in sigla, ASC .

Ne aveva fatto domanda non tanto perché gli piacesse il militare, anzi lo detestava addirittura, quanto perché l’assolvimento di siffatto obbligo gli avrebbe permesso di seguitare gli studi senza patemi. Infatti, allora, a differenza di oggi, il rinvio era possibile solo in caso di frequenza dell’ultima classe di Scuola Superiore. Invece, l’interessato era alla seconda Liceo. Bastava essere ammesso al terzo ed ultimo anno, per ottenere il rinvio della maledetta partenza. Non ce la fece per solo pochi giorni. Fu costretto, infatti, a partire alla fine di maggio di quell’anno, una settimana prima degli scrutini.

Che scalogna! Ci perse, infatti, due anni per arrivare alla maturità. Ritardo che incise su tutte le altre scelte successive: mancata iscrizione a Medicina (anticipata addirittura da una casuale intervista a La Gazzetta), forzata frequentazione di Lettere Moderne, ecc. Il tutto fu rimediato, comunque, a seguito degli esiti concorsuali nel pubblico impiego (due concorsi per lo stesso posto) e poi nel servizio come animatore culturale prima, concluso con l’attribuzione della funzione di Direttivo 6. E questo reso possibile grazie al superamento di un concorso interno, al quale era stato ammesso per aver superato oltre la metà degli esami esami universitari previsti per la laurea. Si tratta dell’ultimo grado funzionale ed economico, prima del dirigenziale, dal quale fu escluso, essendo stato lo stesso bandito per la prima volta solo nel gennaio 2008 in concomitanza con il suo pensionamento.

Torniamo al militare. Quando arrivai a Spoleto, la prima cosa che attirò la mia attenzione in senso positivo fu la Caserma, piuttosto ben fatta dal punto di vista logistico e strutturale. Aveva camerate ben tenute e moderne, alcuni accoglienti refettori con tavoli a quattro e a due unità. Due cinematografi. Altrettanto accogliente la città, per via dello svolgimento del Festival dei Due mondi. Quasi per ironia della sorte, il motivo più ascoltato al Jubox era nientepopodimeno “Odio l’estate”, titolo e parole che calzavano bene alla mia situazione di militare “forzato”.

Ci diedero due divise, una detta impropriamente da lavoro, nonostante fosse uguale all’altra, e la seconda  di libera uscita. Ebbi come comandante un valido ed empatico Capitano che, a differenza degli altri, ci trattava con molta umanità. Fu lo stesso ad ispirarci la fondazione di un giornale  a cadenza settimanale. Un grande foglio murale che tutti potevano leggere. A me fu affidata la rubrica “Lettera alla Fidanzata”. Vi scrivevo lunghe missive, che facevano piangere i commilitoni e nel contempo i miei soliti amici ed amiche lasciati al paese, a cui provvedevo ad inviarne puntualmente una copia di mio pugno.

Fu creato anche un complesso canoro – musicale, ben intonato con strumentazione e batteria per lo più arrangiata alla meglio, come scranni in ferro, vassoi e piatti di stagno e posate. Fortunatamente c’era qualcuno che si era portato dietro la chitarra, un altro la fisarmonica ed un altro ancora il sassofono. Di cantanti ce n’erano più di uno. Si cominciava, verso il tardi, prima della mezzanotte, mentre tutti noi eravamo a letto, eccoti attivato dal gruppo, sistemato in un angolo della camerata, il mini concerto, con canzoni blues, rock, calipso, chà chà e quant’altro di moderno.

Ad esibirsi c’erano due cantanti esperti , appartenenti a complessi famosi, di cui non ricordo i nomi. Per un’ora circa si faceva baldoria, talvolta accompagnando il canto dai nostri letti, altre volte, scendendo in piano a ballare il ritmo preferito. Capitò che una volta, il chiasso e la musica fu elevato al massimo livello, tanto che le note arrivarono persino in città e soprattutto alle orecchie dell’ufficiale di picchetto, un tenentino tutto pepe, che abbandonò la garitta e venne da noi, accompagnato da due sergenti e ci notificò immediatamente il suo editto: “da ora in poi niente più musica e canto”. Tutto questo non era previsto dal Regolamento , detto allora “Circolare 1000” .Fu questa la prima normativa ad insegnarci ex cattedra gli ufficiali docenti, e noi a seguirla con viva attenzione dalle nostre comode poltroncine sistemate nell’aula a semicerchio, anch’essa moderna ed agibile.

L’altra novità che mi colpì fu il servizio al refettorio, composto da uno di noi allievi che faceva da capo e da alcuni soldati semplici a mo’ di camerieri. Una volta capitò a me la guida. Dovevamo prelevare il tonno dal magazzino. Prendemmo dei grossi barattoli e ci avviammo al refettorio. Strada facendo, mi venne la voglia di assaggiare dal ‘mio’ grosso barattolo qualche tonno, calai la mano e ad un tratto l’involucro che tenevo in mano si piegò sulla mia persona. Fui sazio sì, ma nel contempo desolato, perché, essendo domenica, ad insozzarsi fu la mia divisa di festa. Il giorno successivo, in libera uscita, portai l’indumento ad una pubblica lavanderia per la pulitura. L’andai a ritirare qualche giorno dopo, ma la divisa venne si pulita, ma non del tutto come prima. A questo punto girai l’uso, quella lavata diventò da lavoro e quella usata fu adoperata nei giorni di festa e durante le pubbliche cerimonie. Nessuno si accorse mai del baratto.

Dopo un paio di mesi, finite le lezioni teoriche, passammo alle esercitazioni pratiche con le armi cosiddette di gruppo. Si cominciò con il fucile Garand, di otto colpi (fu radiato dall’E.I nel 1962). Si andò al poligono, ubicato a due chilometri dalla caserma. Dopo di che ci sistemammo nei luoghi di tiro (un’ex cava). Ognuno di noi aveva accanto un tiratore scelto, di solito un ufficiale. Di fronte avevamo, a circa trecento metri , una serie di piattaforme metalliche su cui erano sistemati i relativi bersagli a cerchi concentrici, guardati da appositi avvistatori, detti zappatori, uno per ogni singola piazzola di tiro. Fui il primo. Caricai l’arma, inserendovi il caricatore da otto e dopo averlo chiuso e approntato, lo imbracciai e , al segnale del mio accompagnatore, scaricai i primi tre colpi. Fecero quasi centro.

Nel dare l’esito non fu lo ‘zappatore’ dirimpettaio, ma quello seguente. Il mio accompagnatore gridò, stupito: “ che fa quel cretino? “. Accortomi, però, che l’errore era stato commesso da me, per via del mio occhio malandrino, rimasi in silenzio. Nel contempo, corressi da subito il tiro, scegliendo per davvero questa volta il bersaglio giusto. Alla fine, ci furono i risultati. A parte i miei primi cinque centri, che mi furono assegnati, ci fu baruffa, quando lo zappatore del bersaglio successivo anziché contare gli otto colpi previsti, ne contò undici, suscitando la rabbia ulteriore del mio superiore.

Il giorno più brutto che trascorsi fu quello della vaccinazione. Accogliemmo con vistoso timore la grossa siringa, ma sopportammo quasi tutti. Anzi, alcuni si misero a scherzarci su pesantemente. I sintomi fastidiosi si manifestarono la mattina successiva. Ci sentivamo tutti rotti e nessuno si alzò. Avevamo febbre alta e il petto ci doleva assai. Così che ci misero in consegna  per tre giorni, in attesa che il malanno passasse. Pranzo e cena, interamente a latte e a brodaglie, furono serviti dai fanti. Alla sveglia dell’ultimo giorno, scattammo tutti, tranne qualcuno ancora febbricitante, e tornammo al lavoro usato, cioè a fare lezione in aula e a eseguire le ginniche esercitazioni in campo, questa volta portate avanti con grande sacrificio. Infatti, ad ogni movimento il petto e i muscoli connessi ci dolevano terribilmente.

Passarono altri giorni ancora sempre con il medesimo impiego sino a quando , ritenendoci ormai del tutto guariti, ci comandarono di effettuare il percorso di guerra. Lo superammo tutti con buona pace del nostro istruttore, sempre vigile e duro nei suoi secchi e precisi comandi. Altre volte, ci mandarono a fare esercitazioni di guerra al poligono. Per prima cosa si apprendeva l’arte del mascheramento del viso, eseguita a comando con un apposito pastello nero. Quindi,ci si esercitava a conoscere e a maneggiare ad una ad una tutte le armi di gruppo: oltre al fucile Garand, il moschetto detto Mab, la bomba a mano, il fucile mitragliatore, il lancia fiamma e il bazooka.

Una volta mi capitò una comica situazione che per poco non finì in tragedia. Infatti, dovevamo simulare, un assalto di gruppo al nemico. Insieme ad altri, mi misi pure io in posizione: da una parte tenevo il ‘Mab’, dall’altro una bomba mano detta “csrcm- Sigla, di cui ho dimenticato lo sviluppo verbale. Comunque, solo parzialmente deflagratrice. Al comando del Capitano, mi lanciai pure io in corsa. Avevo già tirato la spoletta (sicura) alla bomba, non mi restava che lanciarla. Mi impappinai, anziché la bomba, lanciai il moschetto, mentre il comandante mi gridava dietro:  “buttaa,..!buttaa...! “. Finalmente, capii, e cercai di lanciare lontana la bomba, mentre io mi buttai a terra in difesa. Cosicché l’ordigno scoppiò vicino, ma non fece danni.

Dopo qualche settimana, feci domanda al Comandante di ritirarmi dal corso e di essere assegnato al reggimento in qualità di soldato semplice. Intanto, mio padre mi aveva fatto sapere di aver impegnato per il mio trasferimento a Roma, il solito maresciallo sopra accennato. Passarono altri giorni ancora fino a quando un bel giorno fui convocato in ufficio dal mio comandante, che mi mostrò subito due telegrammi. Il primo informava che c’era per me un posto nella Capitale, al Ministero, l’altro quello ordinario che mi aggregava quale soldato assaltatore al 157° Rgt di Fanteria di stanza a Genova. Rifiutai il primo, per un motivo banale. Conoscevo già la Capitale, mentre il Capoluogo ligure era una città da me appetita, perché ancora tutta da scoprire.

Partii qualche giorno dopo, via treno, passando, da Perugia e poi da Firenze. Raggiunsi la destinazione a sera inoltrata. Fui accolto e mandato in camerata. Mi sentivo morire, vedevo tutto triste e sporco. L’indomani, il mio stato d’animo si aggravò, perché il giorno prima erano affogati in mare due soldati, ma non per inesperienza per blocco intestinale. Fui consultato anch’io per la veglia funebre. Rifiutai, perché non aveva ancora la divisa del Reggimento, che mi fu consegnata l’indomani dal magazziniere, unitamente al resto del corredo. Anche in questo coglievo una novità, quella della cravatta rossa, provvista di targhetta argentea con sopra la scritta “Leoni di Liguria”, ornamento che attirò la curiosità del pubblico in ogni dove.

Per di più la targa-motto diede occasione di suscitare dei momenti di forte ilarità, durante una escursione della compagnia sul vicino Forte “Richelieu”. Una salita, quest’ultima, assai ripida e faticosa costituita da una sorta di scala di Sant’Anna, Verso la fine eravamo stanchi a morte, per cui ci buttammo a terra come sacchi di patate, nel mentre il Capitano avanti ci invocava a proseguire, incitandoci: “Su avanti, leoni di Liguria”. La truppa non solo non si mosse, ma anziché ruggire, come fanno i leoni, belò in coro “Meeh…, meeh ,,,! al pari di un vero branco di pecore. Da allora non andammo su in montagna, ma esercitazioni ginniche e corse li sostenemmo nel cortile della nostra struttura.

Un altro scherzo da me vissuto fu quello della libera uscita. Un amico di mio padre, in servizio come sottufficiale al carcere “Marassi” mi venne a trovare in Caserma. Si chiamava Dunatucce Ciucciarattate (Lombardi). L’ufficiale di picchetto, non appena ne lesse il nome, subito gli chiese: “parente del Colonnello? (così si chiamava)”, l’altro dapprima farfugliò, ma poi confermò chiaramente. Da quel giorno, il permesso giornaliero era assicurato. L’amico mi portava a casa sua, mi faceva indossare l’abito borghese e subito in giro per ore ed ore nella città a visitare monumenti e bellezze, compreso il porto dove era ancorata da tempo l’Andrea Doria. Lui tanto intrigò, che alla fine ci fu concesso il permesso di visitarla da capo a fondo.

Nonostante questi svaghi, il mio stato d’animo rimaneva sempre nero. Volevo assolutamente ottenere il congedo e rientrare a scuola. L’occasione propizia, arrivò presto, quando ormai non speravo più. Un certo giorno si presentò da me un certo Prof. di Francese. Si chiamava Vincenzo Mercuro di Lesina. Era stato incaricato ad aiutarmi da un suo cugino che viveva a Rignano. Costui, tanto brigò e un certo giorno fui chiamato a visita medica presso il contiguo ospedale militare. Ci andai e seduta stante mi fu concesso una licenza di convalescenza di 20 gg. più viaggio. Due giorni dopo, mi ritrovai in paese.

Qui, pure io ci misi la mia abilità. Convinsi il medico curante a proporre in certificato una continuazione della cura. La conferma o meno doveva emetterla la struttura medica del Distretto Militare, retta da un certo De Mauro, se non erro,  dirigente democristiano di prim’ordine. All’uopo mi feci accompagnare da un certo “Pappantonio, a quel tempo segretario della locale sezione DC, che tutto poteva. Il bello fu che il medico, anziché riceverlo con onore, lo cacciò via, rimproverandomi aspramente. Mi venne meno il credo e sbottai in pianto, confessandogli tra un singhiozzo e l’altro la verità sul mio caso. Si commosse  e  concesse seduta stante la proroga della licenza di altri 20 gg.

Nel frattempo avevo ripreso a frequentare regolarmente la terza Liceo. Mi cedevano il passo tutti, specie le donne, incuriositi dalla mia divisa e soprattutto dal mio essere in carne, grazie alle esercitazioni ginniche militari trascorse. Allo scadere, mi fu rinnovata la licenza. Eravamo già a febbraio inoltrato. Ci voleva ad ogni costo una licenza più lunga per poter agevolmente terminare l’anno scolastico ed essere ammesso agli esami. Quando fui al Distretto, il medico, mi chiese: ” Vuoi tornare al corpo o continuare la convalescenza?”. Optai ovviamente per la seconda soluzione, ossia andare al Distretto Militare regionale e rischiare. In questo mi aiutò il divino.

Durante il viaggio in treno per Bari mi assalì la febbre a 40’. Quando scesi in stazione non capii più nulla. Persi i sensi e mi trovai ricoverato all’Ospedale Militare di Carbonara. Qui rimasi per circa due settimane a curarmi un attacco grave di bronco-polmonite. Così avevano diagnosticato i medici, prescrivendomi una iniezione al giorno di pennicellina. Io e gli altri ci offrivamo  con grande piacere, perché a servirci era  una bellissima e ben tenuta infermiera crocerossina. Non ci pensai. Dopo pochi giorni eravamo già in sesto. Fu allora che nel primo pomeriggio, mentre una radiolina a transistor trasmetteva ad alto volume”Let’sTwist again“, canzone di Peppino Di Capri, ci buttammo giù dal letto e ci demmo al ballo nel contiguo corridoio. Uno spettacolo comicissimo! Si ballava non in pigiama, ma in camicia da notte, quella con lo spacco ai due lati. Alla dimissione mi fu concessa l’ambita licenza di 60 gg e ripresi la scuola.

Alla scadenza, di quest’ultima, di nuovo a Foggia e poi a Bari. L’autorità sanitaria distrettuale regionale mi concesse ulteriori 60 giorni, che finivano oltre la ferma dei quindici mesi. Così potei a tempo debito sostenere gli esami, ma non li superai per via dell’alto numero di assenze. Così continuai per un altro anno ancora gli studi, tanto da essere licenziato a giugno con il più alto voto in italiano e il massimo in storia dell’Arte. Pezzo di carta che mi permise di iscrivermi e di frequentare il corso di Lettere Moderne all’Università di Napoli. Anche questa sede, scelta per caso, al posto di Bari, perché nuova e foriera di altre esperienze. Ma questa è un’altra storia!

Di Antonio Del Vecchio

Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.

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