Correva l’estate del 1955, mi trovavo a vivere l’esperienza da ‘internato’, per modo di dire, più o meno felice, al Probandato vallombrosano di Montenero. Vi giunsi l’anno precedente, pieno di speranze. Voglioso di apprendere e conoscere cose nuove. Un sentimento, questo, assai comune a chi come me si addentrava nell’adolescenza.

Da poco, infatti, avevo ottenuto la promozione alla seconda media con il massimo dei voti e mi godevo le meritate vacanze, non tra le moine accomodanti della famiglia, fra i propri amici compaesani , ma assieme agli altri compagni di pari classe o superiore. Una esperienza vissuta tra estenuanti partite al pallone, lunghe passeggiate nelle campagne collinari dei dintorni. A giorni alterni al mare, tra pietre e scogli di ogni forma, frastagliati come ricami. Da queste parti non si trova neanche un granello di sabbia.

Dopo le prime esperienze entusiaste per la novità dei luoghi, contenti fra le discontinue ed alte coste di Calafuria ci eravamo man mano un po’ tutti annoiati. Né ci arrecava sollievo le poche ore al giorno, dedicate alle sane letture di narrativa classica o per modo di dire “per ragazzi”, a cominciare da “Pinocchio” di Carlo Lorenzini, alias Collodi, cittadina che fortunatamente visitammo e conoscemmo durante le nostre istruttive e dotte gite scolastiche.

Si leggevano racconti indimenticabili, necessari alla base di ogni buona formazione scolastica e culturale del bravo studente: “Il Giornalino di Gian Burrasca” di Vamba (Luigi Luigi Bertelli), “I miei ricordi” del D’Azeglio, i “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, gli appassionati romanzi di Dumas, in particolare il Conte di Montecristo, la trilogia dei Moschettieri; nonché “20.000 leghe sotto i mari” di Jules Verne.

Senza omettere la gran parte dei romanzi di avventura di Emilio Salgari e tanti altri ancora. Erano la nostra Tv o cinema del tempo. Le storie e avventure narrate dai noti autori stimolavano la nostra immaginazione ben diretta ed architettata dai talentuosi scrittori.

Di tanto in tanto, non mancavano di proiettare, nell’apposita sala del piano terra, film del tipo 16 millimetri.

Circa le scarpinate passatempo, ricordo quella dei corbezzoli, per lo più in autunno, nel mese di ottobre. Allorché, sui rami la nuova fioritura si affiancava ai frutti maturi e dolci della stagione precedente. Noi ragazzi ne eravamo ghiotti. Al sol pensiero mi ritorna l’acquolina in bocca, il desiderio di gustarne. Mi pare di sentirne il profumo ed il gusto, come fosse ieri.

Di solito, si partiva la domenica mattina, dopo aver partecipato alla seconda messa mattutina, quella delle ore otto, nel Santuario. La prima veniva celebrata nella cappella, alle ore 6,30. Locata proprio accanto la camerata. Avevamo pochi minuti, dopo la sveglia-scampanellata dei decani, per indossare gli abiti e per lavarci viso e mani con l’acqua fredda, nel bagno attiguo.

Si prendeva la via per il Castellaccio e dopo averlo superato si scendeva giù negli avvallamenti sottostanti per assaporare i frutti rossi pregiati che spuntavano qui e là tra le piante. Di solito si faceva ritorno risalendo la china sul fronte dirimpetto, immettendoci sulle cime che guardavano verso il mare, composte da macchie boscose, alternate da cave di pietra arenaria.

Di questo paesaggio, ricordo la mastodontica e famosa tomba di Ciano (Costanzo, padre di Galeazzo, genero di Mussolini, fatto fucilare per presunto tradimento), alias mausoleo, iniziata nel 1939, proseguita durante la guerra e sospesa nel 1943 in virtù del cambiato regime. L’incompleto e poderoso ‘rudere’ che sorge in località Monteburrone, alto più di dieci metri, si affacciava a tutta vista sulla città di Livorno ed il suo mare. Lo abbiamo visto sempre da lontano, mai da vicino. Non si sa per quale timore o ragione. Si trattava di un lungo tragitto, percorso più volte all’anno. Solitamente serviva per ammazzare il tempo, oltre che per rinforzare i muscoli.

Un sabato della prima settimana di luglio, mentre eravamo a pranzo, il vice padre – maestro Luzi ci comunicò che l’indomani e nei giorni a seguire saremmo andati a fare il bagno non più a Calafuria ma a Sonnino, il famoso castello di proprietà della famiglia dell’ex-Ministro degli Esteri d’Italia.

Era la prima volta. Il luogo lo si conosceva solo di fama. Esso si trova appollaiato su un promontorio a picco sul mare, a pochi chilometri dalla solita spiaggia che frequentavamo, ad un tiro di schioppo dalla frazione di Quercianella. Partimmo il mattino successivo, in assetto da mare, alla volta di Sonnino, all’alba, quando il sole era appena spuntato.

Alla comitiva, oltre a Don Luzi, si unì giù nel sagrato, don Zenone, da dieci anni e passa in missione a San Paolo del Brasile. Era un super cinquantenne corpulento, grosso e grasso. Da subito si era distinto per la sua costante azione educativa a favore dell’infanzia abbandonata, preda delle insidie della strada. Sottomessi al potere dei più forti e cattivi. A loro dovevano puntualmente rendere conto, in ogni momento del giorno e della vita.

Il tragitto verso la meta fu davvero tranquillo e spedito. In mezzora, raggiungemmo la statale. Da qui, con passo più comodo e spinto, in un baleno conquistammo il Castello. La costruzione della struttura non è antica, come può far pensare il nome. Risale alla fine dell’Ottocento, quando il barone Sidney Sonnino la scelse per stabilire la propria residenza.

La comitiva, di cui facevo parte, fu accolta con piacevolezza dal custode. Una volta tanto, tralasciò il suo servilismo e con fare cameratesco ci mostrò tutte le meraviglie della struttura. A noi, cacciatori di novità per età ed interesse, piacque tantissimo, anche nelle cose apparentemente meno significative. In seguito ci accompagnò alla discesa verso il sottostante porticciolo.

In una decina di minuti ci trovammo alla meta: una semi insenatura di tipo artificiale a due specchi. Ben s’addiceva allo scopo di tenere al sicuro le poche barche da diporto della famiglia. Ci liberammo frettolosamente dei nostri abiti per giocare con la piacevole acqua cheta e tranquilla del primo anfratto. Il pantano era profondo più di tre metri ed era intercomunicante attraverso una stretta sufficiente al passaggio di un piccolo natante con l’altro fratello naturale, ossia lo specchio d’acqua collegato al mare e al resto dei fabbricati. Qui si sbarcava e si conservava la merce indispensabile alla vita e sussistenza del maniero sovrastante.

In attesa del da farsi, ci disponemmo sulle panchine laterali a studiare la zona. In un angolo si riunirono don Zenone, il vice e i decani. Decisero di fare le prove di tuffo. Al resto si raccomandò il solo bagno con ingresso dalla parte bassa iniziale.

I primi tuffi, senza colpo ferire, furono effettuati a getto continuo dal missionario, super esperto della materia per via della sua esperienza in terra americana. Il resto degli adulti lo seguirono.

Uno di noi volle fare la prima simile esperienza. Si tuffò con immersione ed emersione. Si rivelò perfetto. Lo seguirono man mano, a ruota, tutti gli altri, me compreso. Diventai nel giro di poco tempo un perfetto tuffatore.

Continuammo così sino a mezzogiorno. Quindi, dopo aver mangiato un pezzo di pane e bevuto un sorso d’acqua dalla bottiglia di scorta, su comando di Don Zenone e del vice- maestro, intraprendemmo il viaggio di ritorno. Dopo un’ora e più, fummo a Montenero, giusto per il pranzo. Lo consumammo con molto appetito, in parte dovuto alla fatica del cammino, per il resto dalla soddisfazione nell’ aver assaporato e vissuto una vacanza super, in un luogo riservato ai baciati dalla ricchezza e dalla fortuna, come i Sonnino.

Il giorno successivo e l’altro ancora si ripetette l’esperienza con maggiore lena e creatività sino a sperimentare delle vere e proprie gare di abilità per ciò che riguardava i tuffi. Prima di ogni immersione, Don Zenone buttava nell’acqua una piccola pietra di colore rosso, estrapolata dai residui di qualche masso di arenacea caduto lì per caso. Si posava sul fondo. Ogni tuffatore doveva cercarla e portarla su. Si segnava il tempo impiegato dei partecipanti con l’orologio a cronometro, un oggetto raro che il missionario portava con sè. Alla fine si stilava un’apposita ed ordinata graduatoria dei più abili e veloci.

La gara ci piacque non poco. Divenne, pertanto, una costante per i giorni e le settimane di vacanze che trascorremmo, proprio lì, al porticciolo di Sonnino. Quello che doveva essere il penultimo giorno, divenne invece l’ultimo a causa di una presunta disgrazia che mi vide protagonista.

Ero già ai primi posti nella classifica giornaliera e mi disponevo agli ultimi tuffi, allorché per guadagnare tempo mi buttai a capofitto. Volevo individuare il posto ed impossessarmi della pietra rossa. La stessa si era piazzata in fondo, proprio al limite del muro perimetrale. Pertanto, nella fretta di fare subito e guadagnarmi la vittoria della gara odierna, rasentai il muro e senza accorgermi la mia testa strisciò su una punta di pietra. Mi causò una leggera fitta di dolore. Risalii a galla, con la pietra rossa stretta nella mia mano destra, mentre un fiotto di sangue scendeva dalla mia tempia sinistra, invadendo il volto ed il collo.

Don Zenone mi prese subito in braccio. Preoccupato, con premura mi trasse in disparte. Mi medicò alla meglio usufruendo del materiale ad hoc contenuto nella nostra cassetta di pronto – soccorso. Al nostro rientro si provvide seduta stante a contattare l’Ospedale di Livorno, dove fui ricoverato il giorno successivo, nel reparto di Medicina.

Intanto, la febbre era salita a circa quaranta gradi. Dopo gli accertamenti condotti in modo certosino e lungimirante, l’equipe degli specialisti scoprì che la stessa non era dovuta alla improvvida ferita ma all’orecchio con l’eventuale rottura del timpano sinistro. Una affezione che colpisce solitamente non solo competenti tuffatori di professione, ma anche inesperti dilettanti come me.

Dopo una settimana, grazie alla neonata penicillina, fui dimesso guarito. Ma il guaio non finì qui. Continuò a perseguitarmi con alti e bassi per tutta la vita con una graduale perdita dell’udito. Fattore negativo che non mi impedirà in avvenire di svolgere regolarmente il servizio militare di leva, il mio impiego pubblico di bibliotecario e di animatore culturale, nonché la mia professione di giornalista.

Forse a proteggermi, in questo percorso di vita, ci ha pensato la Madonna delle Grazie in Montenero. Durante tutto il fanciullesco e giovane probandato ad Ella sono stato sentitamente devoto. Assistevo instancabile a due Sante Messe al giorno, ad una infinità di Santi Rosari. Era la mia lode e riconoscenza, la mia risposta d’amore.

Di Antonio Del Vecchio

Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.