Dopo Michela, arrivò la seconda Maria, sempre della classe ’47, come la maggior parte delle mie conquiste. Era una brunetta tutto pepe e ben proporzionata.
Aveva due occhi fluorescenti che ti stregavano in un attimo, attirandoti al suo e tuo interesse come una calamita. Le faceva eco un viso bruno e una bocca piccola e carnosa. Il tutto, incorniciato da una capigliatura grossolanamente arricciata e nera, che le dava un aspetto di una vera e propria bambola. Ma non era di serie, vuota ed asettica. Te ne accorgevi subito, quando discorreva con il suo parlare forte ed avvincente. Ebbi modo di conoscerla per la prima volta in libera uscita durante una serata uggiosa di primo autunno sul Viale a San Marco. Passeggiava assieme ad una altra compagna di lavoro, erano entrambe impegnate in un negozio del posto. C’era pure mio cugino Tony. Lui accalappiò subito l’altra preda, di cui non ricordo più il nome. E ci mettemmo da subito a ‘tirare solchi’ su e giù, come si diceva in gergo. Indossavamo tutti e quattro impermeabili di colore azzurro-scuro in voga a quel tempo. Ne cesserà la moda alcuni anni dopo, perché pare impedissero di respirare bene. Non per niente, quando li toglievamo, sgocciolavano da tutte le parti. In giro non c’era anima viva. Evidentemente tutti era spaventati dal tempo che si preannunciava inclemente. Comunque sia, quando la pioggia arrivò per davvero, l’accogliemmo quasi con giubilo. Equipaggiati com’eravamo, non la temevamo affatto. Era bello vedere il viso di lei bagnato. I suoi baci mi sapevano di fresco, mentre le gocce quando cadevano sui nostri impermeabili creavano con il loro tic tac una musica strana e coinvolgente, non dissimile da La pioggia nel pineto di D’Annunzio. Ed io l’abbracciavo. Il suo seno s‘incollava al mio, vibrante e caldo, e i baci continuavano a detergere il suo volto sovrastato dalla frangetta dei capelli bagnati, trasformatisi in un anellato e grazioso tira bacio. Continuammo così sino all’arrivo del pulman che ci doveva portare in paese. Una mezzoretta, insomma, che segnerà per sempre la nostra vita. Era sbocciato in quella sera romantica un vero e grande amore. Salimmo, poi, sull’automezzo, colanti acqua da ogni parte. Ci riassettammo alla meglio, aiutandoci l’uno con l’altra. La compagna di Maria era sola. Tony era sammarchese. Così fracidi com’eravamo, tornammo a casa, imbambolati e soddisfatti. Il secondo appuntamento con Maria lo ebbi la sera del Giovedì successivo. Si ballava a casa dei miei parenti nel centro storico. Lei arrivò in cappotto nero con al collo una sciarpa di seta trapuntata di rosso che s’intonava bene al viso scuro e alle labbra rosso naturale, dandole una soffusa aria di ‘vampetta’ (piccola vamp, donna fatale), di quelle che si vedono solo al cinema o alla Tivvù. Sotto il cappotto, teneva poi, una minigonna mozza-fiato di colore bianco perlaceo, che si staccava netta dalla sovrastante e setosa camicetta nera. Era la moda del tempo. Sistematici, ci demmo subito alle danze. Ricordo bene il lento, messo più volte, forse per stamparne in noi il ricordo. Si trattava dello sgrammaticato ‘Ho rimasto ..solo’ di Don Backy. Ci stringemmo e ci divertimmo assai. Il resto lo consumammo sulla Ripa. Ci vedemmo sempre da queste parti di tanto in tanto, ossia a fine settimana o negli intervalli, quando lei era libera dal lavoro. Un lavoro umile, che io sconsigliavo di fare, sognando per essa tutta un’altra professione e destino. Arrivammo fino all’estate. In quel tempo io avevo stretto amicizia con ‘Gaetanino’, di alcuni anni minore di me. In breve, diventai un amico fisso, con cui condividere tutto, persino la fidanzata. E, infatti, io diventai amico stretto della sua Marisella, una bellissima che ti strappava da subito il cuore con la sua forte carica di spontaneità e simpatia. L’amore era contrastato dalla famiglia di lui, che si riteneva più ricca e soprattutto altolocata nella scala sociale. Per cui il loro rapporto doveva svolgersi costantemente lontano dal sole e da occhi indiscreti. Facevo il porta e reca. Una volta lui m i mandò a fissargli l’appuntamento. Mi recai a casa di lei. Bussai sulla pacca della porta a giorno, ma nessuno rispose, chiamai più volte a voce alta, convinto più che mai che sotto non s’intravedeva ombra umana, salvo leggeri rumori, come dei passi e qualche sfrigolio di denti o di tacchi a spilla Scesi le scale e notato che nella prima saletta non c’era nessuno, mi addentrai attraverso la porta aperta a due ante nella stanza seguente. Apriti cielo! Fu allora che vidi all’improvviso davanti ai miei occhi stagliarsi la figura della mia amica col vestito ridotto ai soli due pezzi intimi. Lei emise un “Oh!” carico di stupore e di piacere – dispiacere nel contempo! Accortomi della gaffe, corsi subito ai ripari, dicendo “Orsù, non temere. Io al massimo ammiro la tua bellezza e basta. E poi di donne, ancora più spoglie di te, quante se ne vedono sulla spiaggia? Nessuno si scandalizza più di tanto. Lei, che era lì, davanti agli specchi dell’armadio a tre luce, forse per auto – ammirare le sue grazie, si calmò e mi diede l’orario per lui, mentre con la mano destra cercava pudicamente di coprirsi. Cosicché di corsa abbandonai la casa, che da ora in poi chiamerò quella degli specchi. Una domenica, dopo essere stato per tutta la mattinata ad ammazzare il tempo in parte in piazza e per il resto sulla Ripa, me ne tornai a casa ossia da mia nonna e zia, entrambe vedove, che abitavano in un caseggiato del centro storico più antico, di fattura ed origine medievale. Qui, dopo aver ben mangiato e bevuto in forza dell’appetito dovuta alla mia età, decisi di mettermi a letto per recuperare il sonno perduto nella notte precedente, dedito com’ ero ai miei soliti trastulli di basilisco. Prima di coricarmi dissi: “Mammù (sta per nonna), se viene Gaetanino, di’ che sono andato a casa mia, a Montelepre (così chiamavamo il nostro quartiere periferico , per accostarlo ironicamente a quello del famoso bandito Giuliano, di cui amavamo leggere le gesta sui giornaletti Verso le due, Gaetanino giunse nell’abitazione di nonna e disse. “C’è Tony?. No! – rispose seccamente la nonna. E andò via tutto sconsolato, ma sicuro di trovarlo di lì a poco alle ‘case nuove’. Chiamò più volte: “Tony, Tony!”. Non rispose nessuno. E si spostò alla traversa successiva, raggiungendo a passi veloci l’abitazione di mio cugino omonimo. Lui c’era, aveva visto la sua moto ’50 parcheggiata davanti alla porta di casa, dandogli sottecchi una sbirciata d’invidia – interesse. Affrontò subito il mio parente e dopo essersi assicurato della mia assenza, Pregò: “Orsù fammi fare un giro! – e guardando il mezzo con inarrestabile brama- continuò- Un giro solo, e poi te la restituisco subito sana e salva, perché io e le moto siamo tutt’uno”. Sa’ quante ne ho guidate a Foggia in questi anni. Conosco, oltre alla Vespa, anche la Lambretta e la Gilera. Poteva essere vero, perché lì egli ci viveva e studiava da alcuni anni materie industriali”. Evidentemente l’amico bleffava, ma mio cugino ci credé e cedette. Così che il presunto ed esperto guidatore, salito in groppa alla moto, in un balzo volò via in direzione Nord, abbordando il tratturo che porta al bosco. A quel tempo esso era polveroso e pieno di sassi piccoli e grandi. Bisognava andare massimo a cinquanta all’ora, ma lui non si accontentava. Per cui accelerò fino a cento, approfittando del rettilineo. Poi, preso dall’ebbrezza, cominciò a gridare a squarciagola: “Evviva, evviva…!”. Ma il baccano durò poco. Infatti, nei secondi successivi, prima una discesa mozzafiato e poi una serie di curve a zig zag, lo mandarono letteralmente fuori strada. La moto volò via, lasciando lui, dopo due o tre capitomboli , stramazzato sul bordo dell’arteria in un mare di sangue. Non era svenuto e gridava come una bestia: “Mamma mia, mamma mia…!” per i dolori acuti al viso e al corpo. Il proprietario del mezzo, intanto, aspettava con ansia il suo ritorno. Passa mezz’ora, poi un’ora, ma dell’uomo e mezzo, nessuna traccia. Non potendone più, si recò dal fratello del malcapitato e lo informò di quanto accaduto. Si misero insieme in auto e in pochi minuti raggiunsero il luogo della disgrazia. Lo spettacolo fu tremendo. Il ferito non gridava più, anzi si era assopito, come se fosse morto. Lo caricarono in auto e imboccarono la via del ritorno, questa volta per davvero a cento all’ora. Mio cugino scese alle porte del paese, mentre l’altro abbordando prima la via per San Marco e dopo quella per San Giovanni Rotondo, in pochi minuti, grazie alla buona tenuta di entrambe le strade asfaltate, raggiunse il Pronto Soccorso di Casa Sollievo. Il ferito dopo essere stato medicato alla meglio e, suturati a dovere gli strappi della pelle al viso e in altre parti del corpo, fu internato in Ortopedia, dove subirà una serie di interventi – ingessature agli arti inferiori e superiori e persino ad una costola. Vi resterà quaranta giorni e quaranta notti. Poi uscirà dal nosocomio guarito sì, ma segnato nel viso e nel corpo. Sarà un’avventura che non dimenticherà mai! Come pure io. Infatti, se quel infausto pomeriggio mi avesse trovato, avremmo forse preso altre strade e distrazioni e nulla sarebbe accaduto. È un complesso di colpa che si fece strada in me sin dal primo momento, non appena seppi del fatto, ma di più in serata, quando mi trovavo all’appuntamento proprio con la Maria, questa volta all’Arco della Monaca. Come al solito, ci appartammo subito nel nostro cantuccio preferito. Io triste e melanconico, lei un po’ meno e cominciammo a fare petting, ma io avevo poca voglia di farlo. Il pensiero sulle gravi condizioni del mio amico per la pelle mi affliggeva, come se mi fosse morta la persona più cara in famiglia. Ogni gesto che compivo anziché darmi piacere, mi risultava pesante ed inutile. Il momento clou del disgusto , lo provai però pochi minuti dopo. In istrada si avvertivano non i soliti rumori di passanti, ma di metallo. Capii subito che si trattava del pesante coperchio in ghisa del tombino fognario, forse aperto dalla vicina massaia, per buttarci dentro i rifiuti corporei. Ne fui certo quando all’improvviso esalarono dal basso insopportabili odori mefitici. Ci bloccammo e seduta stante decidemmo di andare via da quel luogo ‘maledetto’, maledetto per il fatto che mentre io ero lì a godere, l’altro stava nel letto d’ospedale a stremare, per via del suo stato ritenuto a caldo dai medici piuttosto grave. Erano questi i pensieri che attraversavano la mia mente. Come spesso accade, quando l’amore è distolto da una cosa brutta che ci è capitata, muore all’istante e non risorge più. Neppure quando si è costretti per ragioni diverse a vivere l’uno accanto all’altro e sotto lo stesso tetto. E’ quanto mi capitò parecchi anni dopo nel Capoluogo. Vivevo, però, già un’altra storia.
Antonio Del Vecchio
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.