Camicetta bianca aperta, collo lungo e affusolato, abbellito da una collana perlacea di colore bianco; minigonna nera stretta, con ampio mantello pure nero. Capelli lunghi e neri come gli occhi pungenti, viso bianco statuario con guance leggermente arrossate. Si presentò così la ragazza che battezzammo subito la “Filippina”, ma che in realtà si chiamava Franca. La comitiva le rivolse la massima attenzione.
“É un pezzo di fi – esclamò Nanny, schizzando gli occhi dai suoi occhiali spessi da miope incallito. Voleva dire “figliola”, ma non terminò la parola, dando adito ad un volgare frainteso. Così si chiamano qui le ragazze e non “uagliole” come nel paese vicino. Quindi, ad uno ad uno fecero a gara per scambiare le presentazioni o farle i complimenti. Il grammofono suonava il brano “Senza luce” dei Dik Dik. Tutti si spinsero ad invitarla e lei corrispose concedendo il ballo ad ognuno.
Ottavio l’adocchiò subito e disse ai suoi: “Questa volta la conquisto, scommettete? Si, una pizza capricciosa con una birra da tre quarti”- risposero gli amici.
E così cominciò l’assedio ballerino. Ci provò per primo zio Nicola, un giovane, soprannominato il romano, che sfoggiò tutta la sua parlata ciociara, per accattivarla. Ma lei non si sbottonò più di tanto, diffidando delle sue parole vuote. Lo seguì a ruota, Nanny, che, dato che aveva un carattere dolce e compagnone, suscitò a primo acchito un po’ di interesse, ma non andò oltre. A metterlo fuori gioco furono le sue mani che sudavano, come se avessero usato mille seghe. Tant’è che ad un certo punto la donna, temendo di vedere il suo vestito macchiato e sgualcito a causa dell’untuoso contatto, raccomandò Ottavio, il cui bel fare e soprattutto le parole romantiche, l’avevano stordita sin dall’inizio. “Senti, non farmi più venire a prendere da quello!” – indicandolo con la coda dell’occhio – perché ha le mani appiccicose”.
A questo punto, cominciò a sperare di poter vincere la scommessa da un momento all’altro. Bastava il primo appuntamento e qualche bacio e l’obiettivo sarebbe stato raggiunto. Così che l’uomo rimase vicino a lei e continuò a fare coppia fissa. Lui la stringeva poggiando le sue mani ai fianchi e lei rispondeva serrandogli ulteriormente il collo tra le sue mani.
A rendere ulteriormente calda e romantica la serata ci pensarono le innumerevoli canzoni e brani musicale affermatisi nel corso di quell’anno nelle discoteche e nei luoghi di mare dello Stivale. Del repertorio, almeno tre furono i successi più acclamati e venduti nell’anno: in primis I Giardini di marzo, canzone di Lucio Battisti che già a maggio occupava il primo posto nella Hit Parade italiana e lì rimase per lungo tempo; poi Quanto è bella lei di Gianni Nazzaro, brano che vinse l’edizione annuale di “Un disco per l’estate” e che rimane ancor oggi il maggior successo del cantante napoletano, e infine Viaggio di un poeta dei Dik Dik. Ci furono, poi, alcun pezzi strumentali che spopolarono per davvero. Il riferimento è alla colonna sonora del film Il padrino eseguita, tra gli altri, dalla celebre coppia Santo & Johnny, per proseguire con Pop corn, successo internazionale clamoroso che in Italia resero celebre i componenti del complesso “La strana società”. Seguì Il gabbiano infelice. Tra le restanti canzoni che furono maggiormente gradite dai presenti furono: Piccolo uomo di Mia Martini; Noi due nel mondo e nell’anima dei Pooh e Io vagabondo dei Nomadi e infine “Per chi” dei Gens.
Durante le danze i due giovani si scambiarono le prime notizie personali: lei era di tale dei tali e stava in vacanza presso la sorella da poco sposata e in attesa del primo figlio. Lui parlò dei suoi studi e della sua voglia di finire presto, per poter decidere definitivamente del suo futuro: lavoro e matrimonio. Specie l’ultima tappa lo preoccupava assai e lo faceva sentire male. Aveva da poco superato i trenta ed era ancora scapolo. Quasi tutti i suoi compagni delle Elementari erano già sposati e diventati padri di famiglia, Lui no. Da qui la sua mania di accompagnarsi sempre ai giovani più piccoli di età, come pure le ragazze, il cui distacco si avvicinava mediamente ai dieci anni circa.
Degli amici di sempre mancava solo Mario, costretto a stare lontano dai trastulli per via della sua impegnativa professione. Eppoi, quando aveva un minuto libero lo dedicava esclusivamente alla sua nuova fiamma del capoluogo.
Giro dopo giro si era superato di molto le 21.00. Ad un certo punto, lei disse: “Devo rientrare, i miei mi aspettano per la cena. Mi accompagni?”. Ottavio, prontamente le rispose affermativamente e prendendola per la mano la condusse fuori dal locale e poi via sul Belvedere. Ad un certo punto, la trasse a sé in un luogo oscuro e la baciò. Lei ci stette e si diedero appuntamento per la sera successiva. Poco dopo rientrò a casa della sorella.
Era una serata di fine ottobre e il cielo minacciava pioggia. Ma non piovve, né la notte, né il giorno successivo. La sera dopo, il giovane conquistatore, l’andò a prendere con la 124 Fiat, l’auto di suo fratello. L’attendeva presso un’amica vicina di casa dei famigliari. Erano le 18.00 e nel paese era già notte fonda, per via del silenzio e della nebbia, che non ci si vedeva ad un palmo dal naso. La fece sedere davanti e avviò l’auto a tutto gas sulla provinciale per Jana.
A due chilometri esatti si fermarono nello spiazzale della fontanella e cominciarono a fare petting, indisturbati. Di tanto in tanto interrompevano l’amplesso per via di qualche fascio di luce volante delle auto di passaggio. Ad un tratto la pioggia dapprima debole si tramutò nel giro di pochi minuti in un intenso temporale che avvolse l’automezzo da ogni dove sino a creare per terra un piccolo pantano, la cui consistenza preoccupava assai l’uomo, perché con la rimessa in moto dell’auto le ruote avrebbero slittato, impedendo così la regolare partenza del mezzo.
Il diluvio continuò imperterrito, alternando la pioggia da debole a forte e viceversa. Decisero alla fine di smettere e ritornare sui loro passi. I famigliari, non vedendola tornare ad un’ora decente, l’avrebbero cercata in ogni dove. Così lui, preso la chiave e girò l’avvio dell’auto, ma a vuoto, la prima, la seconda e la terza volta. Il motore non si muoveva e rischiava di ingolfarsi da un momento all’altro. Smise per un po’ e poi ritentò ancora più volte, ma il giro era sempre a vuoto. A questo punto, considerato che era spiovuto un po’, decisero di lasciare l’auto e di tornare a piedi. In dieci minuti avrebbero raggiunto il paese. E così fu.
Dopo un centinaio di metri, la pioggia riprese a cadere forte come prima e li inzuppò da subito sino al midollo. Lei, nonostante il riparo di mantello e cappuccio, si bagnò fino alle più riposte intimità. Tanto che cominciò a tremare come un fuscello al vento, mentre lui cercava di riscaldarla, tirandola a sé a braccetto.
Alle prime case del paese, quando mancava appena un centinaio di metri dall’abitazione della sorella, furono bloccati da una berlina – spider dal tetto nero e corpo grigio perla. Era l’amico comune, un giovane ‘firmaiolo’ in licenza. Si chiamava Osvaldo. Un tipo allegro e sempre a disposizione del prossimo. Saputo del fatto, si accompagnò a casa prima la donna e poi raggiunsero il luogo dove era ferma l’auto. Scesero e l’altro provò subito a rigirare la chiave dell’avviamento. In un attimo, dopo aver spruzzato fumo nero dalla marmitta, il motore si avviò.
In pochi minuti con entrambe le auto ritornarono in paese sani e salvi. Ma non Ottavio che restò bagnato sino al cambio, mentre in cuor suo imprecava contro il destino baro, che per un nonnulla gli aveva rovinata la serata. L’episodio tragico-comico resterà per sempre nella loro memoria, facendo sorridere gli altri e un po’ anche se stessi.
Ormai la scommessa della conquista era già vinta. Cosicché il sabato sera seguente, gli amici offrirono, a saldo del loro pegno, la pizza e la birra. Ne fu aggiunta a spese proprie una seconda porzione e i due innamorati cenarono a cuor contento, dimentichi della brutta avventura e contenti di intraprendere una nuova storia d’amore, che li segnerà per sempre.
Il rapporto di Ottavio con la presunta Filippina durò per tutta la permanenza di essa in paese. A giorni alterni si mettevano in auto e raggiungevano i posti più disparati. Raggiunsero persino l’alberghetto, dove Ottavio teneva i suoi corsi, facendosi dare una stanza a sua disposizione, forse la stessa che gli ricordava ben altri volti ed avventure.
Ma poi arrivò il giorno della partenza e si dissero addio la sera prima alla vecchia cava, a pochi metri dalla provinciale, ma completamente appartata ed invisibile al traffico. Si giurarono eterno amore! E lei partì il giorno seguente con il cuore in gola.
Passò solo una settimana. Quindi, si rividero per puro caso in un altro albergo di una città a mezza strada con la sua. La struttura si trovava fuori mano. Lei venne con il pullman e si presentò a prima mattina nella hall, ad accoglierla fu il saluto di un pappagallo ammaestrato a dovere che disse subito: “Signora Buongiorno, ti sei fatto il bagno questa mattina?”. La nostra ‘Filippina’, mentre veniva verso Ottavio, si bloccò di colpo, convinta di aver a che fare con qualche burlone di turno e girò lo sguardo in ogni dove per scoprirlo. Ma con gli occhi non incrociò nessuno che lo interessasse. Fu a questo punto che si fece avanti il proprietario dell’albergo che spiegò all’interessata ogni cosa. La donna, presa da simpatia entrò nella comitiva, composta da giovani braccianti e nostalgici di Di Vittorio, e diventò da subito una di essi.
Fu in questa occasione che la donna in un momento di intimità comunicò al suo uomo che le “cose” tardavano ad arrivare e pensava che fosse incinta. Lui ne fu vivamente sorpreso, perché era la prima volta che accadeva. Eppure ci aveva messo tanta attenzione… Fu frastornato, da una parte vedeva il futuro roseo, come lo può essere un padre osservante di tutti i sacri e santi precetti, dall’altra il dramma di non farcela. Lei disse subito: “Se non si può, dobbiamo liberarcene al più presto!”. “Oh no, rispose lui affranto”. Poi come se volesse prendere tempo, aggiunse: “Dobbiamo assicurarci che il fatto sia reale. Poi pensiamo al resto”.
Con la morte nel cuore, lei lasciò i corsisti e , accompagnato da lui, salì sul pullman diretto al suo vicino paese.
Conclusa felicemente l’attività, salutato dagli anziani amici di Di Vittorio con una serie di Evviva, Ottavio tornò al Capoluogo, fortemente preoccupato. Qui, il mattino seguente, tramite il consiglio di amici già sposati e il consulto di un medico – ginecologo amico, acquistò in farmacia il metodo-prova concezionale e il pomeriggio stesso raggiunse in auto la sua innamorata, per consegnarlo direttamente nelle sue mani. I genitori ovviamente non ne dovevano sapere niente. E così fu. Infatti, lei senza farselo dire due volte si recò dalla donna-maestra che era pure una sua famigliare e si sottopose alla prova. Era effettivamente incinta.
Ora bisognava scegliere: “aborto o nascita?”. Ottavio, per l’evenienza aveva consultato persino le donne radicali, in questi casi sempre a disposizione, ad aggirare la legge vigente che ne proibiva il ricorso. Ma l’uomo, nonostante la piena disponibilità della donna, cominciava a compiacersi della sua paternità, provando strane e piacevoli emozioni, mai provate prima. Al termine si convinse e disse a sé stesso: “Niente aborto, la sposerò e diventerò padre della creatura, indipendentemente se sarà maschio o femmina che sia”.
Comunicò la decisione a Franca, che si commosse e pianse di gioia, perché l’idea era anche la sua. La notizia fu comunicata alla famiglia di lei. E cominciarono le operazioni pro sposalizio. In primo luogo si scelse la data: sarà il primo marzo, mese della Primavera. “Andare oltre non si può – disse lui – altrimenti la pancia si vede e i rapporti in pubblico si complicano”. Successivamente la notizia fu data anche alla famiglia dello sposo che, dopo le iniziali contrarietà, decise anch’essa a dare il suo assenso, nonostante il componente non avesse alcun corredo. A quei tempi di mancato sviluppo e miseria, il possesso di esso era una “condicio sine qua non”, specie per il soggetto femminile. Nel caso di Ottavio, pure, perché l’uomo doveva avere da parte almeno un po’ di roba intima e soprattutto un abito da sposo da fare colpo. Evenienza, quest’ultima mai affrontata in casa sua, per via del fatto che aveva preso lavoro appena l’anno prima.
Per lei la questione corredo si risolse subito: la sua famiglia, in aggiunta al corredo, avrebbe provveduto anche al mobilio e alla cucina. Il primo grande intoppo per lui fu l’abito da sposo. Dopo aver girato a tappeto, assieme al suo inseparabile amico- collega Genny, quasi tutte le boutique di abbigliamento della città e della provincia, meno una che era chiusa per restauri, l’abito non si trovava.
E questo a differenza della casa, che era stata acchiappata a volo, quando i lavori di restauro erano ancora in corso. Una bella e comoda abitazione, parte integrante di un antico e storico palazzo signorile, composta dal primo e secondo piano. Non era un vero e proprio appartamento, ma misurava complessivamente 90 mq, più che sufficienti per mettere su famiglia ed allevare figli. Per di più la stessa si trovava in pieno centro, vicina sia ai mercati e alle vetrine, ma anche alle strutture culturali e di divertimento. Sarà un “pensatoio”, a cui da ora in poi dovranno fare riferimento e qualche volta anche ricorso , un po’ tutta la èlite del posto: intellettuali, uomini politici, amministratori e persino dei vice-ministri.
Si fece un altro giro ancora per il ‘vestito’, ma con un nulla di fatto. Ottavio era quasi disperato anche perché la data del grande evento si avvicinava sempre più. Fu a questo punto che Genny fortemente dispiaciuto dello stato d’animo del suo amico, dopo averlo ben squadrato, sentenziò: “hai la stessa taglia di mio nonno (nonno, comune anche ad un famoso presentatore televisivo o showman), ti starebbe bene il suo mezzo tight da cerimonia con raso, mai usato a causa della sua immatura morte.”. “Sì – rispose l’altro – portamelo subito che lo provo!”. Fu di parola. Il giorno seguente, Ottavio l’indossò. Gli stava proprio a pennello, come se fosse stato confezionato per lui. Da quel giorno, non se ne parlò più. Poco tempo dopo, mentre era in giro per la città, gli capitò di passare davanti ad una boutique. Notò di non averla visitata in precedenza. Entrò e chiese dell’abito da sposo. Gliene portarono uno con giacca ad un solo bottone, che gli piacque e, dato il prezzo buono, lo acquistò seduta stante.
A farlo decidere fu un ricordo non bello del passato. Quel giorno si trovava nella chiesa del Convento per assistere al matrimonio segreto di suo cugino. Per non destare sospetti nella famiglia, che l’aveva avversato aspramente, l’interessato si presentò alla funzione con una camicetta a mezze maniche. Il Frate celebrante, si avvicinò al gruppo, formato dal classico”Io, sòrete e Tu”, e disse:” Ci vuole la giacca. Non ci si può presentare al Signore in modo così succinto”. Si guardarono sorpresi!” Fu allora che Ottavio si sfilò la giacca e la fece indossare allo sposo. Così il rito ebbe seguito, senza altri intoppi.
L’abito prestatogli, in attesa di essere consegnato al proprietario, fu portato e conservato in paese. Per cui, ogni mattina, Genny ripeteva all’amico la domanda “Hai portato il vestito?”. Macché lo porto domani!, aggiungeva puntualmente lo smemorato. La botta e risposta proseguì per lungo tempo, sino a quando il donatore non si stancò e, sopraffatto dal suo spirito di liberale, profferì: “Va bé’, te lo regalo!” . Essendo l’amico passato a miglior vita da tempo, Ottavio, da qualche anno sta cercando l’occasione di restituire il maltolto al famoso personaggio accennato poco prima. Febbraio fu un mese nevoso quell’anno. Lo fu soprattutto alla fine, allorché il paese fu isolato del tutto da qualsiasi collegamento, compreso quello pedonale. La mattina ben presto del primo marzo, il futuro sposo caricò ogni cosa e si avviò per la discesa in prima marcia. Così che dopo una mezzoretta raggiunse la pianura. Qui il sole splendeva e di neve non c’era neppure l’ombra. Dopo un breve contatto telefonico dal vicino centralino della tabaccheria, annunciò ai famigliari della sposa che di lì a qualche ora avrebbe raggiunto la destinazione. Loro non ci credevano alla neve ed erano tutti dubbiosi. E così non fu.
Dopo un’ora circa, egli arrivò sano e salvo e la cerimonia in chiesa si svolse regolarmente con tanta di messa cantata e una folla di invitati che non finiva mai. Erano tutti i suoi. Di quelli dello sposo non c’era che lui, bloccati com’erano non solo dalla neve, ma anche dalla mancanza di coraggio. Seguì il pranzo ristretto e poi via con la mini , stracolma di pacchi di regali e di altre cianfrusaglie, verso la loro nuova abitazione in città. Nel giro di qualche giorno la stessa era stata preventivamente pitturata e arredata in fretta e in furia di tutti i mobili ed accessori necessari. Ovviamente, i piccioncini, scambiandosi di tanto in tanto qualche bacio, erano ansiosi di arrivare, anche perché i trascorsi avevano stancato entrambi.
Dopo un’ora e passa, finalmente raggiunsero la città poco prima dell’imbrunire. Scaricarono ogni cosa e dopo aver di nuovo mangiato e ben bevuto, come recita una famosa canzone popolare, pensarono bene di andare a letto. La stanza si trovava al piano superiore, preceduta da un salottino, ricavato a sua volta da un appropriato separé. S’inerpicarono attraverso la non troppo comoda scala interna ed in un baleno furono sotto – coperta, giurandosi eterno amore, anima e corpo. È durante la notte che accadrà l’imprevisto, che segnerà per sempre la loro prima notte di matrimonio.
Va detto subito che al di sopra del loro appartamento si stava lavorando sodo per il restauro dell’intera ed ampia struttura, destinata ad ospitare un ricco proprietario terriero e la sua famiglia. Qui, non si sa perché, ad un certo punto della notte , un impianto idrico, forse quello di accesso ad uno dei bagni, a causa della forte pressione, cominciò da prima a gocciolare e poi a rompersi definitivamente, allagando all’improvviso il piano tetto dell’appartamento degli sposini. L’acqua si concentrò nelle pendenze. Precisamente sulla colonnina di cemento che fungeva da architrave, là dove era sistemata la parte anteriore del letto.
Per via dell’acqua, la pittura sovrastante cominciò a sciogliersi, sgocciolando sulla testa dei due occupati, i cui volti col passare del tempo diventarono delle vere e proprie maschere. Se ne accorsero quando si svegliarono la mattina. L’una guardò l’altro con stupore e subito dopo con un sorriso di trattenuto scherno: “Vedi, come sei conciato – disse lei – hai una faccia da carnevale!” E l’altro: “Non ridere – rispose – perché hai anche tu una faccia inguardabile”. E poi, aggiunse: “ Vedi, anche la coperta si è sporcata!”.
Si alzarono e dopo essersi ben lavati e ricoperto il letto con carta di giornale già letto, decisero di avvisare l’inquilino del piano sovrastante, che qui dormiva, impegnato com’era nel controllo dei lavori. Questi, essendo un po’ esperto di idraulica, per prima cosa provvide a turare la falla. Quindi, recatosi sotto, constatò in un lampo i danni causati dalla fuoruscita idrica. Poi, scusandosi con le vittime, disse: “Fatemi sapere il conto, che vi rimborso tutto!”.
La notizia della ‘malanotte’ in un baleno si sparse dapprima tra i famigliari e poi man mano tra gli amici, conoscenti e vicini di casa. Alcuni li commiserarono, altri ne risero sotto sotto a crepapelle. Gli interessati, tuttavia, rifiutarono qualsiasi rimborso, sostenendo che tra vicini di casa bisogna sempre aiutarsi, perché i malanni sono all’ordine del giorno e possono capitare ‘una volta a te e una volta a me”. Da allora la famiglia di sopra si terrà sempre a disposizione e parteciperà alle feste varie che di tanto in tanto si organizzeranno di sotto.
Una volta, il signore di sopra, ritirandosi a casa a bordo della sua sfavillante e costosa Mercedes bianca, provò dapprima a farla entrare nel garage sottostante all’abitazione, ma non riuscendovi per via dei ponteggi, la sistemò a bordo del marciapiede dirimpettaio alla casa dell’amico-coinquilino. Ottavio, che aveva osservato le succitate manovre, lo affrontò subito, dicendogli: “Perché non la sistemi almeno per questa sera nel garage pubblico?”. Ce n’era uno poco distante e piuttosto ampio. “No,- rispose lui – tanto dormo di sopra e dal balcone vedo tutto!”. Il giorno dopo, l’auto sparì, rubata da chi sa chi. Il proprietario, non cambiò né colore, né opinione. Qualche settimana dopo si presentò con un’altra Mercedes nuova di zecca e forse più costosa della prima. Intanto, dopo aver eliminato l’inconveniente ostruttivo, aveva reso agibile il suo garage.
Nello spiazzo antistante al palazzo c’era un distributore di benzina e un ampio e libero parcheggio, dove venivano a parcheggiare forestieri e turisti in genere, sia quelli diretti al vicino centro storico, sia gli altri al centro attivo della città. Era il ritrovo anche dei grandi e piccoli agricoltori che avevano le loro terre vicine e lontane dalla città. Vi venivano per parlare di affari tra di loro ed anche per assoldare i braccianti.
Un certo giorno, di primo pomeriggio, capitò ad una coppia di francesi di parcheggiare l’auto da queste parti. Si trattava di una berlina bassa a due posti. Sul sedile posteriore erano deposte due valige di pelle, gonfie. Ottavio, sbirciando dalla vetrina, la vide e la pianse. Infatti, pochi minuti dopo, un energumeno si avvicinò al mezzo e con due cazzotti ferrati ruppe il vetro e impossessatosi delle valige si allontanò senza colpo ferire, inghiottito dalla folla di pedoni e di automobili, che da quelle parti era costantemente consistente.
Nei mesi successivi Franca, accompagnata dal marito, frequentava regolarmente lo studio del ginecologo. Era un uomo di mezza età dai capelli rossicci e col sorriso a sfottò costantemente stampato sulle labbra. Si chiamava T.P. Era l’amante di G., amica stretta della nuova famiglia. Costui, si vantava di conoscere appuntino, la data precisa, anzi il minuto, di quanto il pargolo doveva venire alla luce. La gestazione andava bene. E a suo dire il lieto evento doveva accadere con ogni probabilità a metà settembre.
Da questo punto di vista il partner era tranquillo e non le faceva mancare niente, specie quando si trattava di voglia di frutta. Una notte girò tutta la città per rifornirsi di angurie in mostra sulle rispettive bancarelle. Per lei era la leccornia preferita. Ne mangiava a chili a chili giorno e notte.
Fu in questo periodo, che una notte, svegliatasi, cominciò a lamentarsi: “Oh che dolore…! Oh che dolore”, toccandosi di tanto in tanto la pancia gonfia. Il suo compagno, che aveva un sonno arretrato, la riprendeva: “ Stai zitta che ho sonno” e si accasciava di colpo. Non passava un minuto che i lamenti riprendevano più forti ed espliciti di prima. Il copione si ripeté di nuovo più volte, sino a quando lui in tono scocciato ed oppresso dal sonno disse: “Stai zitta, altrimenti ti porto da tuo padre!” e si rimise a cuccia, come se niente fosse.
La natura non si piega ai no degli uomini. Infatti, ad un certo punto, di fronte all’ennesimo lamento, anzi grido, l’uomo si svegliò del tutto e si accorse che la futura mamma piangeva a dirotto, continuando a stringere il basso ventre con forza. A questo punto, lui si alzò ed andò ad avvisare la vicina di casa che, di parti ne aveva fatto ed assistito tanti. Quest’ultima, di nome Raffaelina, non se lo fece dire due volte ed in un attimo fu accanto alla gestante. “Sta per partorire. Va ricoverata subito – disse la intervenuta, impersonando nel suo modo di essere e di ragionare, il ruolo dell’antica “mammana” tutto fare, sempre pronta e concreta a trovare la soluzione giusta del problema. Salirono in auto e pochi minuti dopo si trovarono alla famosa clinica del ginecologo. Sistemate entrambe le donne, l’uomo, sempre convinto che lo specialista non si sbagliava, si congedò e rientrò a casa. Ma non si coricò. Il sonno ormai gli era passato del tutto. Si sedette accanto al tavolo da pranzo e cercò di far passare il resto della nottata con la lettura di un libro. Ci riuscì solo in parte, perché il pensiero era sempre fisso là, ossia non tanto sulla donna, che pure era l’artefice principale, quanto sul nascituro. “Sarà maschio o femmina?” – si interrogava. “Andrà tutto bene?” – aggiungeva. Insomma, era il suo sentimento paterno, quello stesso che lo aveva convinto da subito a scartare l’idea dell’aborto e spinto al matrimonio.
Alle ore 7,00 in punta, egli lasciò l’abitazione e raggiunse dopo dieci minuti circa (il traffico a quell’ora era pressoché assente) la clinica. Entrò e si avvicinò al lettino della partoriente. Lo fece con una tranquillità olimpica, fermamente convinto che il miracolo della vita sarebbe maturato la settimana successiva, come aveva insistito più volte il suo controllore, ossia il ginecologo.
Afferrò il polso della moglie e cercò di sentirle i battiti, per constatare un’eventuale febbre. Lei si girò sorridendo verso di lui e disse: “Sto bene, non vedi che è nato”, accompagnando le parole con il gesto della mano. Ottavio, diresse lo sguardo verso la culla e con sommo stupore vide un bellissimo e roseo bambino che succhiava il suo dito: era suo figlio. Rimase senza parole.
Poi qualcosa dentro gli scoppiò, suscitando una intensa emozione, e si sciolse in un piacevole pianto liberatorio. Era questa la felicità, mai provata prima. Toccò il suo corpicino, lo baciò in fronte e lo sentì fortemente come sua stessa carne. Non pensò più all’ufficio, non gli importava più niente, a che ora lo avrebbe raggiunto per il lavoro quotidiano. Ora era una giornata di festa sublime. Una festa che la riproverà pari pari durante le nascite successive. Non voleva staccarsi più dal Paradiso. Intanto, la donna lo informò che il professore ginecologo, già sapeva tutto del lieto evento. Anzi, aveva diretto lui stesso tutte le operazioni del caso. Si doleva ovviamente solo del fatto di non aver indovinato il momento della nascita, a suo dire dovuto ad un errore di matematica. Aveva, infatti, contato non tanto i giorni, quanto e solo le settimane.
Trascorsa più di un’ora dal suo arrivo, Ottavio, pensò bene di tornare in ufficio. Lo doveva fare per mettere a posto le carte e prendersi una lunga vacanza, perché potesse stare notte e giorno accanto ai suoi cari. Pertanto, dopo aver ribaciato il bimbo e abbracciata la donna, mogio mogio, ma arcicontento, ritornò al lavoro usato, che gli sembrò più leggero del solito. Madre e figlio lasciarono la struttura sanitaria il dì seguente, sani e salvi, e si accasarono nel loro nido.
I famigliari non arrivarono subito, perché ad impedirglielo fu l’isolamento dei centri di residenza, stabilito dalle autorità, per la quarantena dovuta ad una pandemia influenzale. Pandemia che fece parlare tanto di sé, in quei giorni per la velocità e la micidialità del virus.
L’anno successivo la donna si trovò incinta per la seconda volta e fu un problema, perché mentre stava per arrivare il secondo figlio, il primo non ancora camminava. Per cui era difficoltoso badare, come dovuto, ad entrambi sotto lo stesso tetto. Perciò il primogenito fu portato dalla nonna in paese. Era un tardo pomeriggio d’estate, quando il sole era ancora alto e le rondini garrivano insieme ai colombi, moltiplicatisi negli ultimi tempi a dismisura, tanto da rovinare i tetti delle case trasformati con la potenza dei loro becchi in veri e propri nidi – alveari.
Commovente fu la consegna del bambino. Fu preso amorevolmente per mano dalla nonna e dalla sorella di lui ormai avvezzi ai suoi bisogni. Il papà e la mamma, visibilmente addolorati, al momento del distacco dissero: “Aspettaci, torneremo presto!”. Quindi, saliti in macchina, partirono, seguiti dagli occhi pieni di lacrime del loro primo figlio. Ogni fine settimana, la scena era sempre la stessa. E questo, nonostante l’affetto del bimbo verso i suoi curatori cresceva e si saldava, come da madre a figlio.
Arrivò il secondo parto e fu un altro maschio. Lo stesso visse con i suoi genitori costantemente. Andò all’asilo in città dalle suore e sviluppò il sociale senza problemi. Il terzo anno, la donna si ritrovò ancora incinta.
A questo punto ci si rivolse all’AIED, a quel tempo, curata da una professoressa attivissima, nota in tutt’Italia, per via della sua dialettica ed affabulazione, ma soprattutto per il suo forte attaccamento alla causa donna e alle sue libertà civili. Fu lei a combinare il primo aborto in quel di Roma, dove erano attivi i radicali, che ce la misero tutta per la buona riuscita dell’operazione. E così fu, grazie al volontariato dei medici, esperti nel cosiddetto metodo per aspirazione detto Karman, normalmente eseguito in roulotte o presso qualche abitazione amica. Andò bene e la coppia degli interessati ritornò in sede il giorno successivo.
Non passarono dieci mesi, che la questione si ripeté. Stando agli esami effettuati in Ginecologia, si trattava di gemelli. L’operazione si risolse senza problemi in quel di Roma. E questo grazie al fatto che il concepimento era al disotto delle quattro settimane.
Una volta venne nella Capitale una ragazza siciliana di 14 anni, il cui concepimento aveva superato il limite massimo delle quattro settimane. Per cui bisognava contattare Londra, dove l’apparato medico era piuttosto preparato per questo tipo di interventi. L’unico inconveniente era la spesa del viaggio. Fu immediatamente fatta una colletta tra le famiglie interessate e gli attivisti del PR e con il ricavato si pagò il tutto. A quel tempo era attiva Adele Faccio. Lo spirito di solidarietà, che emerse per l’occasione, colpì marcatamente Ottavio che d’allora diventò anche lui un attivo volontario. Negli anni successivi l’intervento divenne più facile, in quanto espletato in città presso le abitazioni delle attiviste che di volta in volta mettevano a disposizione della bisogna i loro rispettivi appartamenti. Del servizio usufruirono anche le famiglie più in vista della città. La nostra coppia non si fermò e concepì altre volte ancora.
Secondo un calcolo effettuato posteriormente, se tutti i nascituri fossero venuti alla luce, la famiglia in questione avrebbe raggiunto la quota tredici, compresi i due fattori principali. Di questo passo, insomma, il problema della natalità sarebbe stato risolto in positivo fin d’allora, senza più aspirare o ricorrere all’immigrazione.
Alla fine degli anni ’70, la famiglia ebbe modo di riunirsi in paese, con la tenuta di una seconda casa, mentre una nuova di zecca si stava prospettando in futuro, di cui si dirà. Entrambi, i ragazzi s’iscrissero e frequentarono le elementari, mentre Ottavio era lanciato da tempo sulla via del giornalismo e della politica. Nel primo caso era diventato redattore – corrispondente di un grande quotidiano nazionale, dopo le prime esperienze consumate con successo presso un importante periodico con cadenza settimanale della città ospite.
In politica, diventò stretto amico di una grande penalista, che diventerà poi deputato-senatore e poi vice-ministro. Quest’ultimo era assai legato alla famiglia e quando veniva in città, non dimenticava mai di passare dalla casa del suo amico, spesso intrattenendosi, quando lui non c’era, a giocare a calcio balilla con i suoi figli.
Nei successivi anni ’80, Ottavio fa carriera ed eletto, a seguito di una tornata amministrativa, diventa assessore in un importante Ente pubblico sovra comunale. Tra l’altro, esso è impegnato nel campo dello sviluppo e valorizzazione del territorio sul piano turistico. Lo fa attraverso la redazione di un vero e proprio Piano di sviluppo socio-economico, a cui collaborano i massimi esperti a livello regionale e nazionale. Piano che guiderà l’attività amministrativa negli anni a venire.
Al fine di accrescere gli arrivi sulle proprie spiagge, l’Ente in parola pensò bene di esporre le proprie bellezze ed eccellenze enogastronomiche, con propri stand, nelle diverse fiere più rilevanti promosse a livello europeo. E in questo, perché si era fermamente convinti di poter raggiungere migliori risultati con azioni dirette e spettacolari. Ci andarono con i propri amministratori ed altri degli Enti locali di periferici, con la propria gastronomia e perfino con un gruppo folk che illustrasse le proprie tradizioni canoro- musicali.
Scelsero Monaco di Baviera e vi arrivarono con un pullman. Misero il loro stand all’Olimpia platz , l’ex stadio olimpico. Il gruppo in parola aveva nel suo seno un professore di lingue, che sapeva parlare bene il tedesco e lo guidava a menadito in ogni luogo.
Una sera all’Olimpia si promuoveva l’interscambio degli assaggi di piatti tipici di ogni singola nazione. Si approdò allo stand dei Turchi. Qui c’era un girarrosto gigante, dove si stava rosolando una bestia di cui si ignorava la sembianza effettiva. Poteva essere un coniglio. Non so un agnello o quant’altro. Arrivò il loro turno e ad ognuno si offrì un panino con un pezzo di carne ‘strappato’ con un affilato coltello dal corpo principale. Ci misero dentro anche come contorno un intruglio di cipolline arrostite, condite e pepate a dovere. Per bevanda fu servita una coppa gigante piena di birra. Gustarono tutti con appetito. Anzi, un boccone tira l’altro, un rutto dopo l’altro, erano accompagnati da soddisfatte esclamazioni del tipo “Oh, Ah e Uh!” come se fossero ad una festa della matricola.
Dopo aver mangiato e ben bevuto i protagonisti non vedevano più un tubo e si diressero ad un bar col pensiero di prendere un buon caffè all’italiana, quello tedesco era una sorta di brodaglia colorata che non aveva né odore, né sapore. Tentare, comunque, non nuoce! A questo punto, il professore di tedesco si fece avanti e disse: “Vi è piaciuto il piatto turco?”. Tutti in coro gridarono “Si…” Ma sapete che avete mangiato? – aggiunse con tono misterioso. Nessuno rispose, perché nessuno sapeva di quale animale si trattasse. “Ve lo dico io – continuò il professore con accenti sarcastici- “Quello era un maxi torcinello di gatto! “. Si bloccarono tutti, soffocati dal senso di nausea che li risaliva dal dentro. “Tra poco si arriverà ai conati di vomito”, sentenziò Vittorio, che era ritenuto la mente del gruppo, per i suoi immancabili colpi di fulmini. Per la sua sapienza calibrata reggeva l’impegnativa delega al bilancio.
Il tedescofilo, che si chiamava Nicola, intanto, cercava di spiegare com’erano fatti questi benedetti torcinelli. “Si tagliava la carne a strisce a strisce – spiegava – e poi dopo averle marinate e condite con aromi, le attorcigliavano ad una ad una attorno allo spiedo, sino alla sua massima consistenza”. Quindi, passava alla considerazione dell’animale, a cominciare dal suo allevamento che era protetto da ogni punto di vista, parimenti a quando accade per la mucca in India. Solo che lì era intoccabile, qui invece era considerata una leccornia alla portata di tutti. Per ingrassarli, si usavano due metodi: uno era quello allo stato stanziale, o meglio si teneva l’animale chiuso in una gabbia, nutrendolo con ogni ben di Dio e permettendo loro all’occorrenza di acchiappare qualche topo ogni qual volta ce ne fosse stato bisogno dentro e fuori casa.
Il più praticato ed economico, comunque, era l’allevamento allo stato brado. Venivano costituite delle vere e proprie mandrie di gatti ed un apposito mandriano, di solito un ragazzo minorenne, li teneva a bada presso gli stagni d’acqua o i canali di scolo, anche di acque reflue, di solito regno incontrastato di ratti piccoli o grandi, detti anche zoccole. Questi ultimi avevano le carni più saporite. “Con ogni probabilità quelle mangiate- diceva Nicola, – appartenevano al settore in menzione”.
A questo punto, tutti coloro che avevano ascoltato la sua lunga ed articolata descrizione, si rivoltarono schifati e con rutti a destra e a sinistra cercavano di rimettere l’ingerito. Ma nessuno ci riuscì, perché erano sopraffatti dal ricordo della sua bontà.
La guida, invece, che seguiva con il suo sguardo birichino e canzonatorio i suoi ascoltatori, troncò il tutto con una fragorosa ed ininterrotta risata: “Ih, Ih, ci siete cascati! Ah, ah , quella che avete mangiato era carne di puro vitello!” E tutti risero felici e contenti.
La sera successiva si tenne in fiera un’affollata serata da ballo. Tutti vi arrivarono in ghingheri, compreso Ottavio. Il Salone era immenso e stracolmo di gente. Era la festa del Carnevale locale. La maggior parte dei partecipanti era, infatti, vestita con abiti d’epoca e fornita della tradizionale maschera. Vi erano più di diecimila persone. Ad attirare l’attenzione del gruppo fu “il ballo del qua qua”, grande successo di Romina Power, ma per l’occasione suonato e cantato da un gruppo musicale italiano.
Tutti si buttarono nella mischia del ballo, compreso Ottavio che, da bravo ballerino che era e si riteneva, abbordò subito un tipo vestito da monaca, ovviamente colla mascherina sugli occhi. Il primo giro andò bene. La ragazza dimostrò subito di starci, quando affrontò con lui un lento. Lei gli si strinse come una sanguisuga e di tanto in tanto lo sbaciucchiava, nascondendosi dietro il massiccio Cristo in metallo che aveva appeso sul petto. Si parlò in tutte le lingue, specie in latino. Infatti, dalle poche parole captate, Ottavio capì che la sua interlocutrice era una studentessa liceale, forse minorenne o appena maggiorenne. Di questo si preoccupò, perché se la polizia tedesca lo appurava, te ne faceva passare di cotte e di crude.
Carico di questi pensieri e nel contempo accalorato al massimo, fece coppia fissa per ore ed ore. Intanto, gli amici lo seguivano dai dintorni con curiosità ed un pizzico di sottesa invidia. Anzi, qualcuno si era addirittura azzardato a scattargli qualche foto compromettente. Episodio che lo affliggeva. Se lo avesse appurato la moglie che anche questa volta si trovava incinta sarebbero stati guai grossi.
In sala lo tenevano compagnia solo due compagni del gruppo, impegnati anche loro in qualche conquista. Si trattava del sindaco e vice sindaco del comune tale dei tali. Questo lo consolò, perché non era solo nell’impresa “tradimento”. Erano circa le tre del mattino. I predetti compagni avevano da tempo abbandonato il ballo e le loro ballerine erano andate via da un pezzo.
Di tanto in tanto, ora l’uno, ora l’altro lo sollecitavano ad andare via. Ottavio, anzi la sua compagna, faceva orecchio di mercante e si continuava a ballare e a dialogare con mozziconi di una lingua di Babele. Ad un certo punto, a conclusione di un giro di ballo, si avvicinò ad Ottavio uno dei due che gli disse deciso : “Smettila, dobbiamo andare via, che alle tre in punta c’è l’ultima circolare!.”. Dall’albergo, il luogo distava più di dieci chilometri. La donna, capì che cosa suggerivano al compagno e di contro disse al compagno“Non ti preoccupare, fuori ho la BMW!”. L’altro non capiva, perché la donna parlava veloce e a lui il termine suonava come uno incomprensibile “Bubù”. Alla fine, ella prese un lapis e scrisse su un bigliettino il nome dell’automezzo. Ma lui, preoccupato delle conseguenze che potevano derivare da l’eventuale rapporto amoroso, prese tempo e si fece scrivere il luogo di un eventuale appuntamento per la sera successiva: ore 19.00 in Marienplatz. Helga. Così si chiamava la studentessa. E si lasciarono.
Ottavio dormì sino alle 10.00. Quindi scese nella hall dell’albergo a 5 stelle per la normale colazione. Tutti gli amici lo circondarono ed ognuno chiedeva qualche precisione su questa sua incredibile avventura. “Vuoi vedere che quella ti incastra” – diceva uno. “Ora telefono a tua moglie”- aggiungeva un altro con cattiveria ed un altro ancora: “ora mando la foto ai tuoi”.
Peggio accadrà nelle ore pomeridiane, allorché videro Ottavio ben vestito e pronto al decollo, secondo il loro dire, per un appuntamento. E si ricominciò con lo sfottò, interrotto nella mattinata, a seguito degli impegni istituzionali del gruppo. Una autorevole rappresentanza di esso avrebbe dovuto incontrare, come dopo accadde realmente, una delegazione governativa del posto.
L’uomo cercava di difendersi con ogni possibile trovata o meglio bugia. “Non è vero. Io voglio bene alla mia consorte e ai miei figli. Non mi sogno minimamente di mettermi con qualche altra, seppure straniera!”. Giurava persino sul Vangelo. Passò del tempo e l’ora dell’appuntamento si avvicinava sempre di più. Ma quelli non lo mollavano,
Ad un tratto egli ormai stanco di questa forzata prigionia, salutò tutti e si avviò decisamente verso Marienplatz, cuore del centro storico. Erano trascorse le 19,30, quando egli arrivò sul luogo. C’era un passeggio affollato, ma lei non c’era, Guardò negli angoli più disparati della piazza, ma di lei non c’era alcuna traccia.
Evidentemente, Helga, non trovato all’ora esatta il suo nuovo amante italiano, se n’era andata, forse pochi minuti prima, anche lei con la morte nel cuore per un amore nato, ma non consumato. Lo stesso sentimento riproverà pure Ottavio, una volta lasciato il posto, ma non il ricordo di lei che campeggerà sempre nella sua memoria come: “la monaca di Monaco!”.
Un’altra scena tragico-comica capiterà qualche sera dopo nei paraggi, allorché la comitiva di Ottavio era decisa a visitare la cosiddetta birreria di Hitler.
E questo non a torto. Infatti, fu proprio qui che nel 1921 Hitler tenne il suo primo discorso dove annunciava le sue idee al mondo intero. Nella sala principale, dove ora è normalmente piena di turisti ed è diventato un ritrovo mondano dei bavaresi, i nazisti si facevano conoscere al mondo tra birre e proclami.
“É luogo da visitare assolutamente, perché qui la birra è ottima e il cibo davvero squisito- disse scherzosamente Nicola, l’immancabile guida del gruppo. “Se dobbiamo mangiare – aggiunse – non dobbiamo fermarci sotto dove è riservato ai turisti, ma andate di sopra dove i bavaresi si ritrovano sempre. In caso contrario, facciamo i turisti e basta”. Era una questione di pura conoscenza storica ed apolitica, dissero a se stessi.
Tuttavia,Vittorio, la mente del gruppo non ne era del tutto convinto e pertanto , da comunista qual’era all’antica, manifestava di tanto in tanto il suo totale dissenso a simile visita. Sarebbe stato come un riconoscimento indiretto nei confronti di chi si era macchiato di tremendi eccidi. Riprendeva subito Nicola, professore, pure lui comunista. “Ma dai, è sola la soddisfazione di una conoscenza teorica ed è lontano mille miglia dai nostri pensieri il seppure minimo coinvolgimento”. Così dicendo, si riprendeva l’avvicinamento alla sede. A pochi passi, il ‘forzato’ metteva puntualmente la marcia indietro. Non se la sentiva proprio di oltrepassare la soglia maledetta dello stabile intitolato al suo acerrimo nemico politico, esclamando schifato: “No, non ce la faccio proprio. Andateci voi e lasciatemi in pace!” – concludeva con l’amaro in bocca.
Fin quando, stanchi i suoi amici per questo inconcludente su e giù decisero anche loro di lasciare l’obiettivo, soprattutto per non dispiacere a Vittorio che aveva dimostrato sempre di essere una persona seria e un capace amministratore di conti pubblici. E poi a quei tempi l’affetto e il rispetto erano sentimenti – valori coltivati anche tra i politici.
La vita della famiglia, intanto, continuava a svolgersi tra paese e città. Qui, Ottavio, oltre al lavoro, continuava ad intrecciare amicizie e collegamenti sociali e politici di alto profilo. Dopo la sua iscrizione all’ordine professionale, egli diventò direttore responsabile di un periodico locale che sarà punto di riferimento di rampanti politici e di aspiranti giornalisti di tutta la provincia.
Il locale funzionava pure da segreteria di un noto uomo politico ed istituzionale del barese. Si trattavano tutti da veri e propri compagni in senso lato con una confidenza pressoché fraterna.
Tra essi c’era anche un direttore di carcere. Quando arrivava lui, se ne avvertiva la presenza in modo oltremodo chiaro: un rumore marcato di scarpe ferrate e di tintinnii di mazzo di chiavi . Di questo il dirigente amava vantarsi assai. “Che vuoi – diceva scherzosamente agli ospiti – il lupo perde il pelo, ma non i vizi, quando vedo un ufficio come il vostro, mi sembra di stare nel mio ambiente di lavoro, tra rumori di ferri e di serrature di porte e cancelli!”.
E i presenti accoglievano il suo dire e fare con fragorose e divertite risate. Era un uomo molto semplice e pratico, non amava mai mettersi in vista o sbandierare la sua alta carica di dirigente dello Stato, così come fanno tanti altri ed alti papaveri. Era un tipo piuttosto umile, anche quando era tenuto a presenziare in veste di autorità. Durante un in contro istituzionale, dove gli attori erano le massime cariche civili, religiose e militari, egli che era seduto accanto al Vescovo, ad un certo momento, scocciato per i discorsoni e i salamelecchi che si tenevano nel salone addobbato di stendardi e bandiere, si alzò di scatto e si spostò nell’attiguo corridoio, dove come se niente fosse si mise a passeggiare assieme agli altri, intrattenendosi con Ottavio, di cui era stretto amico, a parlare del più e del meno delle vicende quotidiane.
Era un personaggio assai simpatico che si faceva volere bene anche dai suoi assistiti ossia i detenuti, ligio com’era sempre ai doveri, ma non dimentico mai della sua ed altrui umanità.
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.