Il poeta Posticco (forse Pasquale Soccio), accompagnato a Grotta Terlizzi (Paglicci) da uno dei nipoti (forse Tonino Ciavarella, aviere in congedo presso aeroporto Amendola). Dopo tante sue insistenze, ordina ai suoi collaboratori di accompagnare l’ospite giù in fondo all’antro sino alla saletta delle pitture parietali dei cavalli e delle impronte di mani. Ecco il racconto che ne fa Arturo Palma di Cesnola nel suo “Giornale di scavo”, in atteso di andare in vetrina ed essere presentato in qualche prossima manifestazione sul tema:
<< Anche i poeti amano le grotte. A quanto pare, Mario Bosticco, in persona, oggi è venuto a visitarci. Da tempo ci aveva annunziaro anche una poesia, dedicata a Terlizz. Solo a sentirne parlare, di questa nera caverna – perché colto, fantasioso, perché s’interessa anche di Archeologia – aveva, dice, provato un certo caratteristico “prurito”, quello che per lui non è ancora ispirazione, ma ne è un sintomo, anticamera certa. Bosticco tra l’altro era venuto a una conferenzucca che tenni l’anno scorso nei locali del Comune di Capriano (“Capriano, capitale della Preistoria” aveva gridato a fianco del tricolore, il Sindaco nella introduzione). Conferenza con proiezioni, naturalmente a bei colori. Tutto il tempo il poeta era restato senza batter ciglio, senza perdere – come ebbe a dir poi – una sola sillaba. E le immagini, le immagini, quelle soprattutto lo svevano scosso e ammaliato – del resto, i poeti, di che si pascono se non d’immagini?-. Eccolo, dunque, dopo adeguata preparazione e maturazione interiore, eccolo arrivare a Grotta Terlizzi, accompagnato da un giovane, un parente, forse un nipote: figli non ne ha, è solo sposato all’arte. Poiché sono ossequioso verso ogni forma d’arte, e sommamente verso la Poesia, ho lasciato tutto e sono andato incontro a Bosticco. Per la salita a piei, era affaticato alquanto e rubefatto, si detergeva il viso di abbondante sudore con un fazzoletto colorato. A piedi, perché la macchima con la quale era venuto, una vetusta millecento, si darebbe “finita di scassare” sui sassi dell’impervia stradaccia (quest’tultima espresssioe non è sua, naturalmente). Al campo base gli avevano detto dieci minuti, non di più; lui invece, malgrado l’aiuto del nipote ne aveva impiegato quasi trenta, ecoi risultati che si potevano osservare sul suo viso di poeta grondante e paonazzo. A questo punto ci sarebbe voluto, penso, ben altro che lo sgabellaccio di legno e il bicchiere d’acqua fresca (si fa per dire fresca) che gli abbiamo subito apprestato. Guardava, guardava intorno, Bosticco, facendosi vento col fazzoletto colorato, vedeva pietre, massi, cumuli di terra setacciata, gente che si moveva da un capo all’altro dello spiazzo antistante la grotta, portando secchi, cassette di plastica e di legno, vociferando in un linguaggio letteralmente incomprensibile, fatto di astrusi simboli, di sigle strane ( “È già il diciotto B3 del trentasei F; il diciotto B3 di trentasei G è termibato” diceva uno; e l’altr, un po’ seccato, di rimando: “Perché allora all’ultimo trentasei G non ci avete aggiunto ‘fine’?).
Come spiegare a un poeta che lo spazio in una grotta si suddivide orizzontalmente in quadrati, che portano ‘indicazione di una lettera e di un numero, come si fa nella battaglia navale, e verticalmente si distingue in streati, e questi in livelli, che a loro volta possono comprendere un certo numero di tagli?”.
Quasi a voler riportarsi a una maggiore concretezza, Bosticco mi ha fissato e mi ha detto: “E allora, cosa c’è di nuovo, quali scoperte avete fatto stavolta?”
Ho scrollato il capo, proprio nulla da segnalare. Non ci credeva. Pensava fosse solo modestia e artificio sottile da parte mia. E tutto quel via vai di giovani eccitati, di secchi e sigle e terre, che significavano allora? Nulla? Un semplice e vuoto rito? Non si poteva proprio credere.
L’ho accompagnato in grotta. È inciampato almeno due volte lungo il sentierino di accesso. Gli spiegavo: le solite spiegazioni, che tra collegh, studenti e curiosi che arrivano qui, seppure in salsa un po’ diversa ripeterò venti trenta volta all’anno, e che ovviamente un po’ mi nauseano. Ma lui badava a dove nettere i piedi per non inciampare ancora e rovinare definitivamente a terra.
Entrati nell’ombra dell’avangrotta, ci siamo fermati. Gli occhi di Bosticco andavano su e giù tra pareti e soffitto, intimoriti e insieme allietati dalla novità dell’ambiente, dall’improvvisa frescura, dall’odore di terra umida, di muffa. Tutto ciò lo aggrediva, e non gli dava spazio per ascoltare, tanto meno per intendere le mie indicazioni, prosaicamente riguardanti il suolo, gli osse le pietre..
“Dove sono le mani dipinte?” a un tratto mi ha interrotto, con un tono vellutato e un poco misterioso nella voce.
“Quelle? Ah, sì, sono giù nel fondo, la discesa è alquanto scomoda..” trattoLa sola espressione del mio viso avrebbe dovuto bastare a scoraggiarlo. Ma lui voleva, mi fissava con l’intensità supplicantedi un bambino posseduto da un desiderio irrefrenabile.
Ho dovuto dnque provvedere, come l’altro giorno per i colleghi Bertolozzi e Stronconi: il lungo cavo della corrente elettrica, al solito le lampade, gli elmetti, la pattuglia di scorta, de Gilbert naturalmente. Avevo già perduto quasi un’ora, accompagnarlo anche giù fino alla salatta delle pitture, questo era troppo. La Poesia è bella, è sacra, ma il lavoro non deve fermarsi.
Dunque de Gilbert è stato ufficialmente incaricato di condurre agli Inferi Bosticco. L’elmetto, il poeta non l’ha voluto, gli sembrava un po’ buffo. “Starò attento” ha detto.
Ad uno ad uno sono scesiutraverso la strozzatura che dà acceso alla prima sala interna, la lampada a fiammeggiato un istante sulla volta, e sono scomparsi. Le loro voci, pur attutite, si sono sentite ancora a lungo di sotto, poi si sono spente anche quelle. Più nulla. Come inghiottiti
Ho tirato un sospirone. “!Ne avranno almeno per mezz’ora mi sono detto e ho ripreso a lavorare. Luisa aveva “continuato” nello scavo da sola. Poverina, che avrebbe potuto fare? Quando non ci sono io, per il solo fatto di non avermi al fianco, resta paralizzata dai dubbi. Nella maggior arte dei casi, smuove la terra con riluttanza come avesse paura di qualcosa. (“Alla fine diventeraicome de Gilbert spesso le dico). Ora, a vedermi di cuovo all’opera, riprende il suo normale ritmo.
Un pensiero mi attraversa la mente: che farà stanotte la Gigantessa? Adesso che ha tra le grinfie l’Orlandini? Andranno tra gli olivastri e i lentischi? E Luisa rimarrà sola per qualche tempo nella bicocca?
Un pensiero così, ritengo, potrebbe anche essere diviso con la ragazza che forse accetterà poi di spartire il suo letto con te. Ma non ho il coraggio di parlargliene. Sicuramente avrò il coraggio stasera, se mme ne sarà data l’occasione, di bussare alla sua porta in un momento bem calcolato, e invece mi sento agghiacciare ora alla semplice idea di doverle dire..È vecchiaia, la mia? O è il mondo che è cresciuto troppo in fretta per me?
Mentre osservo la sua anca stretta dai jeans nella strana posizione che ha assunto – non è forse, questa trincesa, una sorta di grande letto? – , ecco a un tratto la luce torna a fiammeggiare di là dalla strozzatura, e voci, fiati grossi si approssimano. Così presto, penso, sono di ritorno? “Non è nulla, non è nulla” sbuca fuori de Gilbert, “ma ci vuole subito disinfettante e garza”.
Bosticco si è ferito. Ferito alla testa. Il taglio dev’essere profondo, a giudicare dal gran sangue che versa dal capo. Non c’è tempo per chiedere dove, come è stato Il sangue cola in due, tre rigagnoletti vivi attraverso la fronte, le guance, gli occhi, fino al mento. Mentre abbassa un attimo il capo, riesco a vedere l’epicentro di quel cataclisma, proprio al vertice del cranio, un punto assistito invero da ben pochi capellim ora così intrisi, una poltiglia, da non sembrar più nemmeno capelli. Gli occhi del poeta sono di agnello offerto in sacrificio, le mani tremano, in cerca di un impossibile appiglio, e intanto il sangue continua a ruscellare, sil suolo bigio della grotta si è già fatta una piccola pozza. Terra e sangue. Sangue di poeta.
Poco dopo, di corsa, arriva de Gilbert con la cassetta del prontosoccorso, tutto il necessario. Dietro viene la Gigantessa, che sebbpure bancaria ha vocazione materna d’infermiera. La cassetta sì, ma come lavare tutto quel sangue, che forma un reticolo, una specie di gabbia attorno al viso esterrefatto di Bosticco? La Gifantessa ha un lampo di genio. Sfila da una cassetta lì accanto una bottiglia d’acqua minerale appena avviata e senza neppure chiedere: permette?, dall’alto della sua statura la versa tutta a fontanella sopra quel cranio martoriato. Dev’essere un tantino diaccia, perché Bosticco ha un sussulto, piega per un attimo le ginocchia, come un pugile che abbia incassato un diretto risolutivo. Poi si è ripreso un po’. L’abbiamo portato fuori, più alla luce l’abbiamo fatto sedere, lavato bene, curato meglio. I capelli del poeta sono tornati i capelli, le sue mani, prima artigliate nel vuoto, gli sono ricomposte in grembo.
Ma la ferita? Cercavamo – ormai come fosse divenuto un nostro paziente, un nostro oggetto di ricerca – frugavamo tra i suoi fili un po’ bioni un po’ bianchi, perlustrando tutto il cuoio capelluto.
Niente. La ferita non si trovava. Appena un graffietto si è visto, dopo, quando il sangue si era completamente stagnato. Un graffietto da ridere, sebbene questa non sia certo l’espressione giusta. E tutto quel sangue, quel ruscello. Dio mio, era sgorgato da una fenditura tanto sottile, non più lunga d’un’unghia di mignolo. E i poeti, certo, hanno molto sangue nel capo, altrimenti non sarebbero poeti. E dunque basta un’inezia (e lui non s’era quasi accorto del suo proprio infortunio, consistente nell’aver sfiorato con la testa l’apice d’una stalattite, e questo era accaduto, vedi la disdetta, prima ancora di aver raggiunto la saletta delle pitture); basta una parola, un’ombra, un’eco, alle volte anche meno, perché tutto il loro essere si riversi fuori, diventi dramma e tuono, e sottile melodia che avviluppa l’Universo..
Pi tardi Bosticco è tristemente partito. Scortato da de Gilbert, dalla Gigantessa e dall’Orlandini (lui poi che c’entrava?). L’hanno portato giù al campo base col Land Rover. Era proprio il caso di farlo.
Tornando in grotta mi sono soffermato un attimo a guardare quella piccola pozza di sangue che lentamente si prosciugava, filtrando traversp i pori del terreno. In mezzo a fossili, a pietre, a cose morte, quel linquido vivo faceva uno strano contrasto. Ma ancora poco tempo e si sarebbe confuso anch’esso col buio della terra.
Poi ho pensato alla poesia che Bosticco aveva promesso di dedicare alla nostra grotta.
Se mai avrà avuto intenzione di farla, ora credo proprio che non la farà.
N.B. Trascrizione (dal dattiloscritto del testo in copia anastatica) delle pp.94 – 99; nella foto: A.Palma di Cesnola tra il letterato Pasquale Soccio e il sindaco di Rignano Gisolfi (1987)
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.