Riproponiamo una vecchia commedia carnescialesca di cui si è persa la memoria tra i Rignanesi di ieri e di oggi. La stessa, meglio nota col nome “Li ditte”, fu scritta e diretta da Nicola Gravina (1899 – 1976) e rappresentata per la prima volta, il 6 febbraio 1949, in Largo Palazzo, cuore del Borgo antico di origine e fattura medievale.
A rispolverarla dall’oblio e a rimetterla in sesto sul piano formale e contenutistico ci ha pensato il giornalista e scrittore Antonio Del Vecchio, con l’intento di far conoscere alle giovani generazioni il loro passato.
L’insieme del contenuto riflette la condizione socio-economica di quei tempi, dove i protagonisti sono i proprietari terrieri che non fanno sconti a nessuno, i professionisti, gli impiegati pubblici e le forze dell’ordine.
C’è poi l’incipiente industria. C’è, infine, la vasta platea del popolo minuto ossia la massa dei diseredati, quasi tutti dediti alla vita agricola: i cozzi in montagna e i cafoni in pianura. Dopo gli ultimi rientri dalla guerra conclusisi nel ’46 – 47, seguono gli anni del risveglio e del fare. E questo grazie al Piano americano Marshall, che, con i suoi sostanziosi stanziamenti, potenzia la ricostruzione, la scolarizzazione e la rinascita della cultura in genere.
Lo si fa, oltre che con la scuola, tramite il Cinema e la diffusione delle sale di proiezione. Ce n’è una anche in paese, fatta in lamiera a galleria. Funzionerà per qualche anno. Dopo di che sarà chiusa per sempre per via di una tragica disgrazia, in cui perde la vita il gestore. La comunità rignanese, che supera i 3000 mila abitanti, è quasi tutta concentrata nel Borgo Antico, composto in massima parte da mono-locali, privi di servizi igienici e di acqua potabile.
Al rifornimento di essa si provvede tramite le fontane pubbliche, mentre i rifiuti corporali vengono immessi e trasportati fino all’immondezzaio, ubicato nei pressi del dismesso camposanto vecchio ( la “cantarate”). Il transito avviene tramite appositi “carri in lamiera” coperti, trainato da bestie da soma. Successivamente l’anzidetto materiale, raccolto nei vasi da notte, sarà buttato durante le ore notturne nelle fogne nere della costruenda rete (Ditta Putignano, 1947), a cui saranno allacciate più tardi anche le case.
Il risveglio culturale e il ritorno a scuola delle masse, spinge ognuno a parlare in Italiano e ad emulare i Signori Padroni che lo parlano da sempre. Così che si sviluppa una sorta di lingua che diventa subito un misto di Italiano – dialetto o addirittura di un dialetto italianizzato. Questo accade un po’ ovunque, ma a Rignano è una costante. Da qui il suo uso anche nello scrivere e nello ispirare i pochi rimatori, impegnati nella composizione delle ‘strapulètte’ (parodie di musiche e parole, detti anche stornelli) e soprattutto nelle recite, dette in dialetto ‘ditte’, cioè commedie brevi.
Di testi sparsi ne abbiamo trovati tanti, ma solo uno lo abbiamo ritenuto integro e ragionato, che è quello di Zi Niculine Marane, alias il succitato Gravina, oggetto della presente recita. Come accennato all’inizio, il filo conduttore della commedia non è la solita storia d’amore, ma la condizione sociale del paese. Un paese che si sta risollevando dalla miseria e dall’analfabetismo.
Circa i rimatori e i creatori di ‘strapulètte’ va ricordato Michele Tancredi (1892 – 1975), alias Zi Micheline Cucheticchije , figura emblematica col sorriso sempre sulle labbra, che sapeva puntualmente divertire il prossimo con le sue sapide e talvolta pungenti battute e stornelli.
La commedia in parola si compone di cinque atti con finale comico – musicale, ispirato alle virtù e ai vizi del Carnevale, con voce singola e coro. La ripubblichiamo di seguito con l’intento di rendere edotti i lettori, suscitando in essi il risveglio di appartenenza- identità e ricollegandoli alla storia dei loro padri
Il Carnevale in piazza 1949
Scena 1^
(Il tutto è ambientato nella Rignano del dopoguerra. Entrano in scena con i loro abiti tipici: il padrone Don Costantino con il suo seggiolone, il garzone Micheline e due guardie)
Michelino. Buongiorno Signor Padrone! Stai sempre seduto su quel seggiolone. E’ così che fai ingrossare il tuo pancione !
Don Costantino. Cafone ‘sciatate’ di massaria, tu devi fare quello che dico io. Altrimenti, se nu vu fa ninte , ti fazze arruzzeni li dinte!
Michelino. Evviva lu Marchesine come sei nervoso sta matine! Tu non fa ninde, mentre ij pe la fame m’arrugginisckje li dinte!
Don Costantino. Io non rubo a nessuno, ma mangio stento e sudore della mia masseria e, quando le scarpe mi vanne strette, pe capricce me magne pure nu caprètte!
Michelino. Egregio Don Custantine, quando ije fatije alla tua masseria, non sei tu a farmi mangiare, ma sono io che ti faccio mangiare. Eppure a me non mi fai paura!
Don Costantino. Io sono un grande terriero ed ho una azienda tutta mia. A me la gente prega minutamente per ottenere un boccone e del mio denaro faccio quel che voglio!
Michelino. Amico non vantarti delle tue ricchezze! La religione predica la carità verso il prossimo. Cosa che io ho sempre fatto e faccio con onore. Quelli come tè ponne tenè avere tesore, ma nella società cristiana seminano solo dissonore!
Don Costantino. Evviva il cafone, ora mi hai toccato l’orgoglio e l’onore. Smettila e vattene via, altrimenti ti faccio bastonare!
Michelino. Evviva lu Marchése, come tè la code tése. Mannaggia a te! Se non ce stèssere quiste sbirri, sicuramente a quest’ore t’avrije già ‘nzaccate quatte buffettune!
Don Costantino. Evviva il Cafone , l’hai fatta grande e non capisci niente. Dove mostro il mio denaro, da guardie e carabinieri ti faccio perseguitare!
Michelino. Non ho paura di guardie e di carabinieri perché sono un onesto lavoratore, non come te che sei uno scansafatiche di piazza, che per la moneta diventi pazzo!
Don Costantino. Non mi importa della stima e dell’onore, se c’è la moneta sono sempre un signore!
Michelino. Egregio Signor Padrone, la vita di questo mondo non è eterna. Quando moriremo, io andrò in Paradiso ‘scarpe e tutte’ e tu all’Inferno a la nude!.
2^ scena
(Entrano in scena: il Pastore, l’Uomo dello Stato e lo Zappatore)
Pastore – Io sono il Pastore e colla mia sbrafùre, quanne camine, li calicagne m’arrivene ‘ncule. Canosche tutti li munte e tutti li règne, perché tutti li iurne abbatte li campagne.
L’Uomo dello Stato – Io sono l’uomo dello Stato e non sono come il pastore. Sono come il toro in mezzo alla mandria (partita). Posso scegliere la vedova, la maritata e la zita.
Pastore – Tu sei l’uomo dello State. Tu dormi, appunto, e perciò te se sunnate. Se pure tu fusse l’Uomo dello State, ora t’invito a fare “na truttiàte”. A me non occorre né automoble, né carrozze. La più lontana via la raggiungo presto e senza nessuno sforze.
L’Uomo dello Stato – Tu pastore, forse hai ragione che sei un giovane assai valente, ma solo in apparenza. In sostanza sei misero e pezzente. E perciò a ragionare con me l’hai sbagliato. Si, io puzzo di rame, ma sono sempre uomo di Stato.
Zappatore – Brave allu Pastore. Hai sapute defènne il tuo onore. Ora tocca parlà a me che so lu zappatore. Tu sei l’Uomo dello Stato e sei come il toro in mezzo alla mandria (partita). Devi scegliere la vedova, la maritata e la zita. Si véde che si nu scelebràte, perché non hai ben studiato. S’avèsse tenute na bona memorie, avésse studiate li vécchie storie. Gli uomini di State mòrene quase tutte trucedate.
L’Uomo dello Stato. O brutto zappatore, gobbo perfetto. Ora che in questo modo m’hai parlato, ti butto per le scale e ti mando in mezzo alla strada.
Zappatore – Non m’importa che m’hai dato una grande urtate, m’hai buttato per le scale e ma misse a mezze na strade. Se m’avisse ditte dissunerate, pure t’avrije perdunate. Solo perché m’hai detto gobbo perfètte, mo’ te la ficche na curteddate inte lu filètte.
Scena 3
(Protagonisti: Caffettiere, pastore, zappatore, industriale, Agricoltore)
Caffettiere – Tutte l’arte so tinte e nire, lu chiù mal’arte jè lu cafettire. Tenghe sèmpe li mane scotte m’bacce la cafettére. La trippe mije sta bruciate di lequòre. Sono come l’uccello nella gabbia, non pozze ascì nu iurne (giorno) all’aria di fore. Oh bèate a te pastore che respire l’arie de fore, perché tutte le iurne (giorni) abbete inte la campagne. Quanne maturene le cerase sope l’areve si lu prime a irete l’a magnà.
Pastore – Egregio caffettire, non conosco cusse mestire. Io non bevo né cafè e nè liquore. Su questo ve la potete intendere con il mio compagno zappatore.
Zappatore- Egregio caffettiere, il tuo mestiere tu l’hai disprezzato. Tu puoi vivere al mondo coi benestanti e gli impiegati. A noi non occorre lu cafè per digerì, pecché pe la fame stime pe murì. Ora per la guerra, ora per l’esenzione e con la crise di custe mumente, sul dorso c’ianne imposto un grande tesseramento . Noi non vedime l’ore che custe tesseramento jèsse a la malore.
Industriale Buona notte, o miei signori, sono un viaggiatore. Ho smarrito la strada, da voi cerco di essere ricoverato.
Agricoltore – Ed io sono dell’agricolture. Tutte per noi stanno li turture. Volendo lavorare con grande sudore, siamo sempre privi di lavore.
Industriale. Ma l’Industria dal Governo è garantita, perché molte cose abbiamo fabbricato: il moschetto, il cannone, l’aeroplano, l’autotreno . Questa è l’abilità dell’industria e quel che tiene.
Agricoltore – O Signore, in questo punto vi siete sbagliato, eppure l’arma più potente è nelle mani dell’agricoltura. Al soldato senza lu pane, lu muschètte li cade da li mane; L’avviatore con lo stomaco privo di rifornimente, da lu cile casca certamente.
Industriale– Egregio mio caro, il Governo ha sempre garantito l’industriale.
Agricoltore – Quello che noi produciamo, lo portiamo nel grande centro e nella militare sussistenza, ma vorrei vedere qual è lo scopo. Tra l’agricoltura e l’industria c’è un enorme differenza. Ma, egregio signore, quando si tratta di combattere non ci sono parti.
Scena 4^
(Protagonisti: lo Zitellone, Dionisio, sposo e signorina)
Zitellone. Dionisio! Ieri sera sono stato al cinema Flagella. Ho conosciuto una bella donzella. Avrei pensato una cosa, di farla mia sposa.
Dionisio – Sono pronto o mio signore a fare il mio dovere. Una buona mancia mi darai in denaro, non è vero?
Zitellone. Si mio caro, cercheremo di fare prima l’affare. Vacci presto a domandare!
Dionisio. Buon giorno o gentile e nobile signorina, il mio nome è Dijnizie e vi porto una buona notizije. Credo che a voi converrebbe di sposare un vecchio ricco celibe.
Signorina . Dionisio, dimmi la sua età. Vediamo che cosa si può fare.
Dionisio – Signorina, su questo argomento non mi sono bene informate, ma credo che la cinquantina l’ha passate.
Signorina – Dionisio! Scommetto che questa è roba da sessanta!?
Dionisio – Signorina, il vecchio è arzillo e carico di monete. Vuoi che venga qui? Così lo vedete!
Signorina – Venga pure, a me non mi fa paure!
Zitellone. Gentile e nobile Signorina, mia cara, voglio donarti tutto il mio denaro e un’altra cosa, purché tu diventi mia sposa.
Signorina . Se voi mi tenete cuntènte, la mia parola mantengo certamente.
Zitellone. Permetti che chiamo il mio cliente, che lui ne sa più di me e dei miei continente.
Signorina – Venga pure!
Dionisio– Gentile e nobile signorina cara. Cerchi dallo sposo quello che ti deve donare.
Signorina. Questo sarebbe strano, provare a chiedere quello che mi vuole donare. E a lui che spetta dire quello e quanto mi vuole donare. Io parlerò certamente quanne sarò cuntente.
Zitellone.Vi dono tutta la mia moneta e un’altra cosa, purché tu diventi mia sposa!
Signorina– No caro, non basta il tuo denaro!
Zitellone. Vi dono la masseria e una grande azienda!
Signorina – Neanche sono contenta.
Zitellone. Vi do metà della mia filante.
Signorina. Né metà, né tutta quanta!
Dionisio – Signorina, volete che parlo io?
Signorina – Parlate pure!
Dionisio – Il signore, a Piazza Garibaldi, a Napoli, ha un palazzo di cinque piani, ben fatto, vi dona anche questo, baste ché nu facime lu fatte!
Signorina – Dionisio.! Tu sei pazzo a scambiare una donzella con un palazzo.
Zitellone. Dionisio, non mi resta che rivolgermi al mio Tesoro.
Dionisio – Signore! Badi al tuo ben fare. Una buona mancia voi me l’avete promessa in denaro.
Zitellone. Dionisio! Pense sèmpe a quidde sciocche cose! Ora si tratta di acquistare la sposa!
Dionisio. Je so bèlle e care, ma pe li solede me ne vajie alla mupije. Non te n’abbruvegnànne e dille che le vuoi dare per davvero!
Zitellone. Signorina, vi dono l’oro e tutte le pietre preziose, purché tu diventi la mia sposa!.
Signorina – Non voglio neanche queste cose, né l’oro, né le pietre preziose.
Zitellone. O gentile e nobile signorina, scommetto che tu vorresti qualche largo continente per diventare una regina?
Signorina – Vi siete sbagliato certamente. Io non voglio essere regina e non voglio neanche il largo continente. Voglio la gioventù, quella che non hai più tu!
Zitellone. Maledetta alla vicchiaie, non fusse menute mai! Quando l’uomo passa la cinquantine, non può sposare più una signorina. Non importa se vuoi colmarla di tesori. Li fèmmene quanne ‘nciocchene, a na fa sèmpe come dicene lore!
Sposo – Buongiorno gentile e nobile sposa, ho da domandarti una importante cosa. Dubito che fra te e me non c’è più quella cosa. E’ vero che ti dai al matrimonio col vecchio celibe?
Signorina – Tu sei bene informato, Niente ti sei sbagliato. Se avessi voluto sposare con tanta pompa e con tanta allegrezza il vecchio, tutte a me avrebbe donato le sue ricchezze!
Sposo – All’anima di stu vicchie e ricche zitellone. Credi che con la tua moneta, di essere al mondo un grande perno. Ha fenute di cammenanne tutte le taverne. Mo se fatte nu marrone. Vulive spusà la mia donzella. Ora t’insegno io il tuo posto. Ti mando a Bologna, a carne de macèlle, come i somari, a fa la murtadèlle.
Celibe – Tu giovinotto che parli tanto ardito e forte, ti voglio dire una cosa: “ la vicchiaia, jè cchiù nfettive de la turbecolosa!
Scena 5^
(Entrano in scena Carnevale, Carnevaletto, il Prete e il sacrestano)
Carnevale. Ho bandito una festa di tre giorni per far sazio tutto il mondo. Ho comprato sempre a credito: un quintale di carne dal macellaio; tre quintali di pasta. formaggio e salsa dal bottegaio e doie damigiane grosse chiéne de vine alla cantine. Ho mangiato e ben bevuto a crepapelle, giungendo fino al terzo giorno. Ora mi sento male, perché dentro di me carne, pasta, formaggio e vino sono fermentati.
Carnevaletto. Padre, hai fatto bene a chiamarmi subito, ora telefono al Prete per l’estrema unzione e i funerali.
Carnevale. Grazie, figlio mio, ma io sono contento di morire, perché per sfamarmi ho preso in giro tanta gente senza pagare niente. L’ho fatto con un ardito stratagemma.
Prete. Dimmi subito, Carnevale, quale è stato lo stratagemma?
Carnevale. Reverendo, io i documenti del debito ho firmato, ma nessuno può essere pagato, se io non sarò presente. Pertanto, pasta, formaggio, salsa, quando non ci sarò più, niente pagherai tu. Così pure il vino, che peraltro non era buono e mi ha fatto male… da morire.
(Carnevale, a questo punto muore)
Prete, rivolgendosi a Matteo il sagrestano, chiede: Che ore sono?
Matteo. Jé mezanotte, ossiale 24.00 precise!
Prete. Matteo, non stare imbambolato, vai subito a suonare le campane, perché Carnevale è morto e nessuno è obbligato a pagare i debiti di pancia, compresi i funerali, che questa volta faremo gratis, assieme alla Santa Messa Cantata!
Matteo. Oh come so triste, reverendo, mo vajie a sunà le campane a murte!
Prete. Nonne a murte, ma a destése, pecchè Carnevale è state n’ome pazziarille, ch’a fatte addecrejà persune ‘bbune e malate!
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Tenive la ciummeneje sèmpe appecciate per arroste carne, pane e supresciate e la mugghiére vucine a suscià e a cantà.
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Tenive la crestallére sèmpe chiéne de magnà e buttegghione de vine da sculà!
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Tenive na caschie chiène chièn de lunzule arrecamate, de cuperte senza ‘ncegnate, mo chi ce l’ha da jiudé?
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Tenive n’armadie chijene di fric e frac e schemisse in quantità, mo chi ce l’ha da pigghià!
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Tenive nu litte musce musce che sope ce zumpave e jucave come nu cardille, mo chi ce ha da cucà, sule Francaville?
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Tenivi appise tanta larde, ventrèsche e vucchelare, eppure na trèzze di savezicchije, mo’ chi ce l’ha da magnà!
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Carnevalicchije, mo c’è truvate la zite! Senza patre e senza na lire, chi la da fa spusà!
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Appise a li muri tanta sérte tenivi: frucasecche, sòreve, malechetogne, checocce, pemmodore e melune virnij. Viate quidde che ce l’anne fenì.
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Sotte lu litte crasce tenivi; accape patane, fafe, fasuli e cice; a rapide: nuce, mènnele e castagne sècche. Mo ci anne tutte a ‘mpaluinì.
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Voce sola. Inte lu stipe tenive buttigghie di resorie e buccheridde, chiu sotte vase e vasétte di ulive ntunnate e salate, mo dicce chi ce la dà frecà.
Coro. Carnevale, pecché si murte, la ‘nzalate tenive all’urte, lu cascecavadde tenivi appise, Carnevale che scije ìmpise!
Insieme Finale. Addio, Addio Carnevale, mo’ che se murte e sutterrate, non aspettà lu ziudizie nuversale, te baste n’anne de Purgatorie pecciarece nata vota la mammorie! Ti aspettiamooo!
Questa commedia a cura di Antonio Del Vecchio è liberamente ispirata a “Li ditte” di Nicola Gravina (1899 – 1976), rappresentati per la prima volta sotto la sua direzione, il 6 febbraio 1949, a Rignano Garganico. Gli stessi sono pervenuti a noi, tramite i famigliari, in scritti sparsi ed incompleti.
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