Il pancotto rignanese è assai diverso dagli altri piatti omonimi praticati un po’ ovunque in Puglia, specie nel Capoluogo e in larga parte nei centri montani del Gargano e del Subappennino. Lo è per tradizione, passione e creatività, ma soprattutto per i legami alle erbe spontanee del territorio, che lo rendono assai originale e gustoso.
Esso rappresenta una sintesi tra storia, economia e società, che racconta un passato di miseria e nel contempo di ingegno. Il piatto, originariamente, è nato ed è cresciuto per non sprecare nemmeno una briciola di quel pane ‘vecchio’ fatto di farina mista, lievito naturale e cotto al comune forno a legna o a paglia.
L’anzidetto pane spesso coincide con la parte residuale dell’ultima grande pagnotta, detta “sckanate”, di quelle che mediamente pesavano cinque chili l’una e duravano due settimane. Ora non più, le pagnotte sono più piccole e vengono acquistate nei negozi alimentari. Il tutto proveniente dall’unico forno rimasto attivo in paese, da quando è diminuita la popolazione.
Fino agli anni ‘60 ce n’erano ben tre, quello di Filippo, di Via Baronale e di Via Portagrande, che avevano delle brave fornaie, che sapevano lavorare bene ed accontentare le massaie in ogni fase della cottura sia del pane, sia delle pizze, sia delle pastarelle e di altri dolci locali.
Del pezzo grande , si prendeva solitamente la crosta più dura, che, divisa a pezzi piccoli e per il quantitativo sufficiente a sfamare l’intera famiglia, al momento opportuno si immergeva nell’acqua bollente del paiolo, alimentato a tutto spiano dal fuoco delle ‘sckappe’ secche di ulivo (legno tagliato a strisce larghe). Acqua che da qualche ora ora cuoceva aglio e foglia di alloro.
Ora non più, il pane duro è un residuo di pagnotte più piccole, messe ad essiccare per alcuni giorni e conservato in freezer, prelevato puntualmente al momento della bisogna. A parte si acquista o si va alla ricerca delle verdure selvatiche che si trovano in abbondanza e in tutte le stagioni, specie in primavera ed autunno, sui prati liberi ad un tiro di schioppo dal paese.
Per il pancotto si fa ricorso ad una quindicina di specie. Tra l’altro: la cicoria selvatica da prato o da pietra, il cicorione paparino, quello riccio amarognolo, l’altro grasso (“spaccaciunnèdde” o “fregna della Regina”), il caccialepre, il cacigno, la borragine, la papagna, la rucola, il finocchietto, la bietola selvatica, la sckarola, il marasciulo (rapa selvatica). Insomma un misto dolce-amaro. In qualche caso lo si arricchisce con qualche orticolo, come il fiore di zucca (“tanna”) o la stessa zucchina oppure un manciata di fagiolini teneri.
Ovviamente, per addolcire il tutto al punto giusto, occorrono le patate, che vanno cotte per prima e, per ultima, va messa a cottura in in pentola per qualche minuto una manciata di pomodorini paesani del tipo Sicilia. Una volta ministrato, a mo’ di condimento finale, vanno aggiunte in ogni singola porzione, olive nere salate ed olio naturale di oliva per quanto basta.
Come si nota è un pancotto ricco di sapori, ma povero di costi. Vadasé che il pancotto quest’estate sarà il principe dei piatti nostrani che allieteranno il 17 agosto la prima edizione di Borgo Divino, che sarà allestita nel cuore del centro storico medievale del paese, presso ché inalterato nelle strutture, forme e colori, di cui si è già scritto.
Vi aspettiamo al primo Borgo Divino!
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.