Sale il clamore mediatico su Francesca Stilla, giudice del Tribunale minorile di Roma. Questa volta, però, occupa non solo il posto d’onore tra le pagine del pregiato supplemento “D” de La Repubblica, ma addirittura ne costituisce la copertina, di solito dedicata personaggi di rilievo nazionali e internazionali.
Tutto questo grazie alla sua professione di magistrato-donna e al suo volto all’acqua e sapone, illuminato da un sorriso fresco ed empatico, che ispira fiducia e sicurezza. Ad accogliere con entusiasmo ed orgoglio la notizia del giorno è stata l’intera città, facendo sparire nel giro di pochi minuti le diverse copie del giornale e dell’inserto. Chi scrive ha avvertito da subito la necessità di acquistarne una copia, per gustarne la lettura e poi diffondere il contenuto in ogni dove, al fine di raggiungere e soddisfare il più largo numero possibile di persone. E questo perché quella che si ha di fronte non è la solita storia barbosa di un personaggio, ma lo specchio di una donna semplice, professionalmente preparata e soprattutto ricca di umanità che traspare in ogni minimo gesto ed azione. Per lei la giustizia è un esercizio non solo della ragione e delle regole, ma anche del cuore e della comprensione. Regole universali che ti permettono di capire e di soccorrere anche chi ha sbagliato, che, se compreso, non solo riceve sollievo alla sua pena, ma lo invoglia al pentimento e alla rinascita verso una nuova vita, cogliendo così appieno lo spirito della Costituzione che è quello non dell’annientamento , ma della rieducazione e recupero. L’articolo in menzione è scritto da un cronista e narratore di prim’ordine, come Fabrizio Gatti, inviato di punta dell’Espresso. Egli è riuscito sin dalle prime righe a trasformare la sua inchiesta, grazie al suo linguaggio semplice e piano, in una narrazione accattivante e comprensibile. Nell’editoriale di “D”, dedicato ai lei e ai lui distintisi in questa settimana, non a caso la direttrice Valeria Palermi, non solo spiega il perché della scelta della storia di Francesca, quale copertina, da leggere e da farla leggere alle proprie figlie, in quanto ritenuto l’esempio un vero e proprio modello di vita e di scelta della carriera. Ecco, di seguito, l’intero articolo, tratto come accennato (vedi copertina con Francesca) su “D” supplemento allegato a La Repubblica di oggi, sabato 1 febbraio 2020. Buona lettura!
<<Arriva per tutti il giorno, l’istante, uno sguardo che segna lo spartiacque tra un prima e un dopo. Il bivio nel futuro di Francesca Stilla, quello decisivo, appare 16 anni fa alla fine di un’audizione. È appena stata selezionata e ballerà sul palco accanto a Claudio Baglioni. Durante le prove del concerto, il papà la raggiunge e le dice che ha superato il concorso il magistratura. Francesca è la figlia che ogni genitore sogna di avere: studiosa e appassionata di tutto quello che fa, laurea con lode, campionessa regionale di atletica leggera, giovane giornalista tv in un importante canale del Sud e un talento per il canto e la danza. Ma essere magistrato non è soltanto un lavoro: è una regola di vita. Così lei, che ha ancora 27 anni, custodisce nel profondo del cuore tutto il passato. Quella sera, davanti a migliaia di fan che affollano lo stadio della Vittoria a Bari, sarà il suo ultimo ballo in pubblico. Pugliese di San Marco in Lamis, un tappeto di case accucciate tra le rocce del Gargano, oggi Francesca Stilla, 43 anni, è il giudice dei bambini.
Nel suo ufficio, alla sezione civile del Tribunale per i minorenni di Roma, rende giustizia ai piccoli in cerca di una famiglia o che la famiglia ce l’hanno, ma in frantumi. Si occupa della tutela dei tanti minori stranieri non accompagnati. Oppure conclude con una sentenza i delicati percorsi di adozione. Il giudice Stilla apprtienea una generazione di donne che, con intelligenza e capacità, rappresentano un modello di riferimento, anche per le ragazze che seguono il suo stesso percorso. Un ruolo nella società un tempo vietato: fino al 9 febbraio 1963 in Italia, per legge, soltanto gli uomini potevano entrare in magistratura.
Davvero nessun rimpianto? <<No, era il mio sogno e l’ho realizzato, Da piccola>>, rivela, << non sapevo bene cosa fosse un giudice. Guardavo in tv La Piovra del commissario Cattani, Un giorno in pretura, Forum, e il giudice era, per me bambina, un mediatore di pace: colui che chiamava le parti e metteva giustizia. Aveva in mente “Tatucc”, il mio bisnonno. Da lui andava mia nonna Caterina perché risolvesse i piccoli dissidi delle figlie, mia nonna e le mie zie. E da lì ritornava con la soluzione giusta: la sentenza che sostituiva la logica della pacificazione (è il nostro)>>.
C’è però, sicuramente, un primo spartiacque: l’attimo in cui una ragazza decide che, tra tante scelte possibili, una sola è più importante delle altre. <<Avevo quindi anni>>, conferma il magistrato: <<Era un sabato, il pomeriggio del 23 maggio 1992. Eravamo a San Marco in Lamis. Giocavo i strada a campana con mia sorella Valentina e le altre amiche. Mio padre u8scì sul balcone e, con voce severa, ci fece salire subito. Ho fatto le scale di corsa e ho visto in tv le immagini di Capaci, l’autostrada squartata, i resti delle auto su cui era stati ucisi il giudice Giovanni Falcone, la moglie magistrato, Francesca Morvillo e la loro scorta. È l’immagine più violenta che abbia mai visto e l’ mi dissi: io voglio fare il pubblico ministero>>.
Quelle stesse sequenze dell’attentato convincono molti adolescenti di allora a diventare funzionari di polizia, carabinieri, giornalisti, pubblici ministeri. Passano altri 12 anni di studi e di sacrifici. È il 4 luglio 2004 Francesca viene a sapere di avere superato le rpove scritte per entrare in magistratua, il concorso più duro della pubblica amministrazione. È il papà Mario, oggi 1 anni, dirigente in pensione delle Ferrovie dello Stato, a darle la notizia. <Ho sempre avuto la passione per la danza e il tango di Astor Piazzolla>>, racconta lei, <<per questo frequentavo un corso di tando argentino. Era il periodo post laurea: la sera andavo a lezione, il giorno studiavo per il concorso per diventare magistrato. Subito dopo gli scritti, la parte più difficile, a Bari ci furono le audizioni per selezionare dieci coppie di ballerini: avrebbero accompagnato sul palco Claudio Baglioni durante l’esecuzione del brano Fammi andare via. <preparammo la coreografia e andò benissimo. Ero una delle dieci ballerine di tango scelte per il concerto. Quel 4 luglio, con il mio chignon e l’abito di scena salutai mia mamma e la sciai la casa di buon’ora. Era un giorno particolare, perché sarebbero usciti i risultati del concorso. A mio padre affidai il compito di attaccarsi al telefono e di contattare il ministero. Alle tre di pomeriggio, allo studio dove stavamo facendo le prove, lo vidi arrivare con una strana luce negli occhi. Mi abbracciò e mi disse: Ce l’hai fatta, figlia mia talentuosa”. Piansi tra le sue braccia. Andai sul palco felicissima. Fu per me l’ultima esibizione., la più bella. Poi la mia vita è cambiata: una volta che sei magistrato, non puoi più ballare in pubblico>>.
Ogni tanto il talento artistico riemerge in privato, con gli amici più cari. Colleghe e collaboratori raccontano di un pomeriggio invernale in Calabria. Tutti seduti sotto una veranda e splendida vista sullo Ionio. C’è anche un musicista tra loro, ha con sé la chitarra. La dottoressa Stilla, che negli anni del liceo e dell’università ha cantato in due gruppi rock, gli chiede se conosce le note della canone Il mare d’inverno. All’improvviso la sua voce, carica di emozioni e intensa come quella delle migliori interpreti jazz, riempie il paesaggio di colori.
Da ex atleta, il giudice Stilla nel tempo libero torna a correre nei parchi di Roma. Oppure dipinge. <<Correre e dipingere mi rilassano e mi aiutano a prendere le decisioni più sofferte>>.
Tirocinio a Bologna. Primo incarico di pubblico ministero a Brescia. Poi il bando per la Procura presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria: <<Quando scoprii di essere l’unica candidata, sentii il peso della scelta>>, ricorda il giudice Stilla, << La preoccupazione finì quando incontrai il procuratore Carlo Macrì. Mi venne a prendere in aeroporto. Per me è un maestro, una figura paterna. Mi ha guidata, mi ha insegnato a lavorare bene. È un magistrato di grande levatua morale. Arrivai a Reggio nel 2009 e subito mi occupai del processo per la strage di San Luca, quattro minori imputati e 700 faldoni da studiare>>.
Cinque anni in Calabria. Quindi il trasferimento a Roma, come direttore dell’Ufficio ispettivo del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità. Per un anno all’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia, con il contributo alla stesura del nuovo ordinamento penitenziario minorile, che in Italia ancora mancava. E infine, tre anni fa, l’assegnazione al Tribunale pere i minorenni di Roma. <<La parte più bella>>, spiega il giudice Stilla, <<è lavorare con tante mamme e per tante mamme. Il mio ruolo mi fa vivere profondamente il grande mistero della maternità: non è solo una condizione biologica, ma una predisposizione, un abito interiore. Mi capita di incontrare tante madri che non hanno mai smesso di essere figlie e tante figlie “adultizzate”, che fanno le madri dei propri genitori. Si è madri quando si è in grado di fare spazio a qualcun altro da sé. O si ha il cuore di una madre o non lo si ha. E nessun figlio, di per sé, può davvero rendere madre una donna. La maternità è accoglienza, ed è una qualità, indipendentemente dal fatto biologico>>. Francesca Stilla con la velocità di uno sguardo pensa a tutti i “suoi” bambini. <<Oggi mi sento anch’io n po’ la madre. Ed è la ricchezza che dà il mio lavoro. Ho visto la gioia e le lacrime di giovani donne sterili che dicevano di sì a figli abbandonati, malati o semplicemente non voluti. Giovani educatrici che aprivano le loro case nei giorni di festa a quei figli dimenticati in comunità. E donne combattere le proprie dipendenze, per riprendersi un figlio e offrirgli un futuro migliore. Sono esempi di maternità che custodisco gelosamente. Molti di quei bambini tornano a trovarmi>> Quando arruvano, il giudice li accoglie con il suo sorriso luminoso. E subito aggiorna la loro altezza con un leggero segno a matita sul muro dietro la sua scrivania.
I colleghi del ministero rivelano che, quando era sostituto procuratore a Reggio Calabria, la dottoressa Stilla visitava i minorenni detenuti e partecipava ai loro progetti educativi. <<Il contatto umano con le persone, anche da giudice, è fondamentale. Non si può lavoorare solo sulel carte. Nella maia stanza>>, racconta lei, <<ci sono almeno dieci sedie per dare modo a tutte le parti, familiari, minori, educatori, di intervenire all’udienza. La relazione diretta non compromette l’imparzialità del magistrato, ma la rafforza>>.
E la paura come si affronta? <<Non ho mai avuto paura, perché non sono mai stata sola>> risponde il giudice Stilla. <<C’è stato però un momento molto difficile del mio lavoro: ne ho condiviso il peso con i miei stretti collaboratori, la sezione di polizia giudiziaria di Reggio Calabria. Ero arrivata da poco, la Procura di Reggio aveva chiesta e curato l’esecuzione dell’allontanamento di un a minore dal contesto territoriale di appartenenza. Avevamo ottenuto la tutela della ragazzina. Suo padre era detenuto per ‘ndrangheta al 41 bis, e la figlia era di fatto affidata alle cure di un parente agli arresti domiciliari. Fu quindi collocata in una comunità del Nord Italia. Ma lei scappò dopo pochi giorni, facendo perdere le tracce. Forse perché la comunità era troppo distante per chi non si era mai allontanata dalla Calabria>>.
Si può immaginare la reazione della famiglia: <Sì, ricordo parola per parola la lettera che il padre mi scrisse dal carcere di alta sicurezza. Non era l’uomo dal curriculum criminale importante>>, aggiunge il magistrato, <<era semplicemente un padre come tanti, arrabbiato e preoccupati per la sua bambina. Pretendeva che la trovassimo e la riconsegnassimo agli affetti dei propri cari subito. Niente da fare, lei non si trovava. Passarono giorni e la ragazza si presentò nel mio ufficio. Era finalmente pronta. Trovammo per lei una famiglia, una coppia di giovani sposi che la accolsero sino a quando sua madre non fu in grado di prendersene cura. Ora quella ragazza è una giovane donna che lavora e vive al Nord: forse anche lei libera i scegliere il suo futuro>>.
Infine, sui libri del cuore: <<Da quale lettura potrebbero cominciare gli studenti che oggi vogliono diventare magistrati?>>. <<Il libro più caro che consiglierei è Cani perduti senza collare di Gibelt Cesbron, Me lo ha regalato il direttore della Comunità ministeriale di Reggio Calabria, il mio primo giorno di lavoro in quella città. Era sulla mia scrivania, sotto pile di fascicoli. È la storia del giudice Lamy e dei suoi ragazzi difficili. È un libro bello e profondo. Che spiega il senso del mio lavoro di giudica. “Un ragazzo ha rubato una bicicletta”, dice Lamy, e poi aggiunge:”Cosa importa di più, il ragazzo o quella bicicletta?”. I ragazzi terribili di Lamy sono un po’ come i minori che affollano le aule dei tribunali. Sognando il bene, fanno il male, e per questo vanno ascoltati, accolti, guidati. E poi consiglierei Fine pena: ora di Elvio Fassone, attualissimo, sul valore della persona e della pena a vita. Proprio quella che, di fronte a certi reati, non consente neppure un permesso e qualche ora d’aria in più. Il giudice Lamy a questo punto avrebbe chiesto: “Cosa importa di più, questa nuova persona o quella pena antica?”>>.
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.